In tutta Italia continua la fioritura di iniziative e progetti volti a introdurre la narrazione in ambito medico. Tuttavia, in generale, tra i medici manca ancora un’attenzione sistematica per l’ascolto attivo del paziente, ovvero la capacità di lasciare spazio alla persona assistita guidandola, al contempo, nel racconto di alcuni elementi della sua storia clinica, e non solo. Così, alla vigilia del 2° Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina Narrativa in programma dal 10 al 12 maggio presso l’Ospedale San Donato di Arezzo, Antonio Virzì fotografa lo stato dell’arte della medicina narrativa nel nostro Paese. Suggerendo, in questa intervista rilasciata a OmniNews, che per favorirne la diffusione, più che una metodologia clinica, la medicina narrativa debba essere considerata un movimento culturale: “Perché tutti i medici possono e devono sviluppare competenze narrative da poter applicare in ambito clinico. Anche semplicemente potenziare l’ascolto del paziente è importante”.
Professor Virzì, quattro anni fa gli esperti riuniti nella Consensus Conference curata dall’Istituto Superiore di Sanità produssero per la prima volta una definizione di medicina narrativa. In che senso secondo lei bisognerebbe cambiarla?
“Nella Consensus Conference del 2014 furono fissati alcuni punti fermi relativi alla medicina narrativa, identificata come una metodica clinica. La definizione completa è metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa. Ma questa definizione, molto utile allora, in un momento storico in cui era prioritario inquadrare la narrazione in medicina e restringere l’ambito di applicazione, non è più accettabile adesso. Delimitare in maniera così precisa la medicina narrativa, infatti, apre le porte ad una serie di incomprensioni o mal interpretazioni sia su che cos’è sia su come deve essere applicata.”
Quali incomprensioni potrebbero crearsi?
“Ad esempio, se la si pensa come una metodica clinica potrebbe essere necessario avere uno specialista dedicato, che applichi determinati protocolli, cosa che non è possibile e non rientra nei presupposti e negli obiettivi della medicina narrativa. Invece, chiunque in ambito medico può e deve poter parlare di medicina narrativa. Inoltre se si persegue la strada di incanalarla sempre di più all’interno di tecniche di intervento specifiche si corre il rischio di farla assomigliare ad una nuova forma di psicoterapia, una deriva che in alcuni casi si sta già verificando. E’ noto, del resto, che i primi lavori di Freud riguardavano proprio l’ascolto del paziente e l’utilizzo delle storie. Tuttavia, la Medicina Narrativa è una cosa diversa. La narrazione deve essere utilizzata dal medico come opportunità complementare, accanto all’anamnesi, che rimane lo strumento della diagnosi. E’ un approccio che consente una migliore comunicazione tra medico e paziente, con la possibilità per il secondo di trarre giovamento a livello emotivo e fisico da questa interazione. L’idea è che la narrazione è importante per l’essere umano e ancor più per il paziente – prova ne è la crescente richiesta di umanizzazione delle cure – ma non migliora le capacità diagnostiche del medico.”
Come potrebbe essere una nuova definizione di medicina narrativa, in base a queste esigenze?
“Dovrebbe essere più ampia, in modo che tutti possano dialogare ed agire. La mia idea è che venga ridefinita come un movimento culturale, nel quale ciascuno può e deve sentirsi libero di esercitare la narrazione: l’uso della letteratura, della cinematografia, dell’ascolto e del racconto guidato sono esempi di come poterla utilizzare. Così si dà “aria” alla medicina narrativa, che diventa un contenitore più grande di esperienze e possibilità espressive. Senza escludere al suo interno la possibilità di svolgere interventi più specifici e delimitati, classificabili come metodiche cliniche. E solo a questo punto, dunque, è possibile pensare all’ipotesi di un confronto con la medicina basata sulle evidenze, confronto che rimane comunque molto difficile da realizzare.”
Come si può far capire al medico il valore e le potenzialità della medicina narrativa?
“I medici devono essere sensibilizzati sull’importanza del racconto del paziente, un elemento tuttora spesso assente nel loro lavoro e che comunque deve essere potenziato. Anche se non è facile stabilire quale sia il percorso educativo più opportuno. A mio avviso, la formazione attualmente inserita nei corsi di specializzazione dovrebbe invece essere fornita durante il primo livello del percorso universitario, nei sei anni della prima laurea. In questo modo, si fornirebbero a tutti gli strumenti di base per mettere in pratica piccoli interventi di medicina narrativa, senza sconfinare nella psicoterapia.”
Ci fa un esempio?
“Semplici esercizi di scrittura creativa e comprensione di come questo strumento possa essere utilizzato all’interno di un gruppo di pazienti, dunque come forma di mutuo aiuto. Sempre a livello di formazione, vi è già un tentativo, messo in atto da circa 10 anni, di inserire corsi di scienze umane nel primo ciclo: queste lezioni sono sicuramente utili, dato che permettono di sviluppare alcune competenze in ambito relazionale, senza diventare corsi di psicologia. Ma non ignoriamo che la qualità e l’efficacia di questi corsi dipende molto da come sono realizzati. Daltro canto, bisogna evitare che la necessità di competenze narrative complesse diventi il pretesto da parte del medico per sottrarsi al dialogo con il paziente, delegando a una figura professionale specificamente formata. Di nuovo, se fosse necessario uno specialista dedicato per applicare la medicina narrativa rinforzeremmo l’idea della scissione fra mente e corpo e non risponderemmo all’esigenza di umanizzare le cure. Fermo restando che la medicina narrativa non è e non deve essere una psicoterapia.”
Nel suo lavoro, come ha utilizzato la narrazione nella quotidianità dei pazienti?
“Nell’ospedale di Ragusa abbiamo messo in atto più di un’esperienza in cui utilizziamo la narrazione nel contesto clinico. In particolare, nel nostro Centro per l’Alzheimer abbiamo proposto ai pazienti con malattia non troppo avanzata un’attività di gruppo che prendeva spunto dalle loro fotografie del matrimonio, per dare il via ad un racconto. Le immagini diventano così lo spunto per ricostruire brevi ma significativi episodi della loro vita, spesso completamente dimenticati. Questo tipo di intervento non blocca la malattia, non guarisce il paziente, tuttavia, gli procura giovamento sul piano emotivo e spesso anche fisico, dalla capacità di raccontarsi e ascoltare gli altri. Spesso questi ricordi sono momentanei e vengono di nuovo rimossi, ma ciò non toglie l’importanza di questa opportunità. La narrazione offre ai pazienti l’occasione di scoprire se stessi e gli altri (spesso infatti pur vivendo nella stessa comunità da anni non sapevano nulla l’uno dell’altro) e, conoscendo le loro storie, potevano non sentirsi soli ed aumentare la loro autostima.”
Aggiornamento: è on line e liberamente consultabile il libro “Il racconto dei racconti”, che raccoglie gli interventi al II Congresso Nazionale Simen, Arezzo 2018.
Foto di Zahy1412 [CC BY-SA 4.0], via Wikimedia Commons
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