Nella situazione emergenziale in cui ci troviamo, spicca una ulteriore, drammatica criticità: da un lato, i malati, con i loro bisogni di contatto, di relazione, di dialogo anche nelle situazioni più compromesse, dall’altro i curanti, sotto pesante carico lavorativo e privi delle competenze, delle risorse e anche del tempo per rispondere a questi bisogni. I guaritori, scrive Paolo Trenta riflettendo sulla relazione medico-paziente durante l’epidemia Covid-19 (“La relazione medico paziente in tempi di Covid-19”, Italian Journal of Prevention Diagnostic and Therapeutic Medicine), sono feriti perché esposti al contagio e perché impotenti a rispondere a tutti i bisogni e perché chiamati a “scelte tragiche” su chi intervenire o meno.
Alcune sere fa in una delle tante trasmissioni televisive sul covid-19, è stato trasmesso un diario via social di un medico intensivista, sulla cinquantina, operante in un ospedale della zona rossa lombarda.
Quello che ha colpito è stato il tono di profonda e sincera sofferenza e di estremo disagio più “esistenziale” che strettamente professionale in senso stretto. Egli ha prima rappresentato in maniera precisa e puntuale tutte le criticità clinico-organizzative relative al numero degli accessi, alla carenza di personale e di dispositivi sia di protezione che terapeutici, il tutto con una comunicazione molto professionale.
C’è stato poi un vero e proprio salto di registro comunicativo sia verbale che paraverbale e non verbale quando ha iniziato a parlare, con voce quasi
rotta, delle richieste che provengono dai malati “non consone” (sue parole) alla sua preparazione, alle sue specifiche competenze e al suo “ruolo
medico” (sempre parole sue).
Non è stato un arroccarsi dietro al proprio ruolo tecnico, ma una dichiarazione di accorata e sincera dichiarazione di impotenza, di incapacità a far fronte a bisogni veri, reali delle persone malate in condizioni critiche.
Bisogni di ascolto, di rassicurazioni, di accompagnamento, di contatto, di umanità, di certezze!!!
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