Negli oltre trent’anni trascorsi dalla pubblicazione di The illness narratives (1988) di Arthur Kleinman, generalmente considerato l’atto di nascita della Medicina Narrativa, l’idea che le storie dei pazienti costituiscano una risorsa fondamentale per una medicina più efficace, meno spersonalizzante e più umana, ha conquistato crescente popolarità tra studiosi e operatori della sanità. Dall’oncologia alla terapia intensiva, dalla cardiologia alle cure di fine vita, la letteratura abbonda di studi che evidenziano la grande versatilità e potenzialità dell’approccio narrativo in medicina.
Tuttavia, nonostante la gran mole di esperienze accumulate, non esiste a tutt’oggi nella comunità medico scientifica una definizione condivisa di ciò che sia la Medicina Narrativa, o Narrative Based Medicine, considerata da taluni come intervento di supporto al paziente, da altri come strumento di ricerca, da altri ancora come approccio che deve informare la pratica clinica quotidiana. Una lacuna questa che, se da un lato ha favorito il moltiplicarsi delle sperimentazioni, dall’altro, ostacola la diffusione dell’approccio narrativo nei sistemi sanitari. Per fare il punto della situazione, un team di ricercatori italiani ha condotto per la prima volta una review sistematica della letteratura scientifica prodotta da quel fatidico 1988. Sui risultati di questa analisi OmniNews ha intervistato Chiara Fioretti, ricercatrice post doc presso la Applied Research Division for Cognitive and Psychological Science dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano e prima autrice della review pubblicata su BMJ Open.
Dottoressa Fioretti, qual era l’obiettivo del vostro lavoro?
Volevamo capire come in questi anni l’approccio scientifico della Medicina Narrativa si fosse mosso in ambito applicativo nelle scienze mediche. Personalmente, quello che ritenevo da ricercatrice, ma anche e soprattutto da clinica che comunque lavora a contatto con l’ambito ospedaliero, è che ci fosse ancora molta confusione su che cosa sia la Medicina Narrativa e su come si possa implementare nella pratica clinica, nella pratica medica di tutti i giorni. Questo era un po’ il mio preconcetto di base, che ovviamente volevo verificare attraverso una review sistematica. Ne ho parlato con i colleghi dell’Istituto Europeo di Oncologia e tutti hanno concordato che un lavoro del genere non fosse stato mai fatto, né in Italia né all’estero.
Su 325 titoli e abstract esaminati, alla fine ne avete selezionati solo dieci. Perché?
Abbiamo selezionato gli articoli di quegli autori che riconoscevano il nome dell’approccio come un elemento chiave della loro ricerca. Articoli che nel titolo, nell’abstract e nelle parole chiave riportavano proprio le parole Narrative Medicine o Narrative-based Medicine.
Cosa avete scoperto?
Il risultato più interessante in assoluto è che nei dieci studi analizzati si utilizza la narrazione con un duplice obiettivo. Da un lato, come uno strumento di intervento, cioè come veicolo di miglioramento della qualità di vita del paziente, di miglioramento di alcuni parametri psicologici e anche clinici. Dall’altro, invece, si considera la narrazione proprio come uno strumento di ricerca in sé e per sé, cioè uno strumento per raccogliere dati sulla qualità di vita dei pazienti. Ad esempio, se sono interessata a capire come i bambini esprimono il disagio legato alla storia di malattia in un reparto pediatrico posso fare ricorso alla narrazione sotto forma di disegno o in forma verbale. Sono due cose molto diverse: da un lato, uso la narrazione come forma di intervento, dall’altro, la utilizzo per raccogliere informazioni. Secondo me, questo è un risultato su cui bisognerebbe riflettere.
Che intende?
La mia idea è che effettivamente non ci sia un vero e proprio protocollo di ricerca omogeneo quando si parla di Medicina Narrativa, ma che ognuno lo interpreti e lo rivisiti a seconda degli obiettivi della ricerca. Questo da un lato ci permette di lavorare con un approccio narrativo ad ampio raggio e quindi applicabile in molti ambiti, ad esempio in diversi contesti di malattia e rispetto a fasi diverse della malattia. Dall’altro, però, crea un po’ di confusione e forse può essere che sia proprio questa confusione a far sì che poi sia difficile riconoscere il valore e l’evidenza di questo approccio.
Servono dunque metodologie e procedure condivise che consentano di replicare gli studi in altri contesti e con pazienti affetti da diverse malattie?
Sì, bisogna cercare di parlare una lingua comune anche per dare veridicità a questo approccio. Una lingua che proponga un protocollo di ricerca e di intervento che abbia degli aspetti chiave da poter anche esportare a seconda del contesto. Se ci si presenta con una confusione di base anche metodologica è difficile poi riuscire a dialogare con chi invece utilizza approcci metodologici diversi. La Consensus Conference che si è tenuta a Roma nel 2014 è stata un importante momento di riflessione che ha già portato a una definizione comune e unica che si rifà a mio avviso più alla linea della Medicina Narrativa come strumento di intervento che il clinico può attuare per raccogliere dei dati importanti e quindi per svolgere al meglio la sua professione. E’ un passo in avanti, ma a quasi trent’anni dall’avvio di questo approccio forse c’è ancora bisogno di approfondire il confronto.
Da qui, come viene indicato nella review, la necessità di definire i confini dell’approccio narrativo quando viene usato nella ricerca con i pazienti, per dargli indipendenza scientifica. Approfondiamo questo punto.
Quando parlo dell’approccio della Medicina Narrativa, generalmente parto sempre dal celeberrimo articolo di Trisha Greenhalgh “Narrative based medicine: narrative based medicine in a evidence based world”. È assolutamente vero che quando si lavora con le scienze mediche si lavora con scienze evidence-based, però io credo che bisognerebbe smettere di pretendere che la Medicina Narrativa sia considerata una scienza evidence- based. Bisogna capire che se gli strumenti di intervento e i protocolli di ricerca sono differenti è diverso anche il livello di evidenza che si può proporre. Io credo che definire i confini dell’approccio significhi anche trovare un’indipendenza scientifica che non va esclusivamente nella direzione del mondo dell’evidence-based.
Differenze sono emerse anche sotto il profilo del disegno di ricerca. La maggior parte degli studi che vedevano l’approccio di Medicina Narrativa come strumento di intervento non riportavano l’integrazione del gruppo di controllo.
Quando ho iniziato il lavoro, tra i criteri di inclusione ed esclusione degli articoli nella review, avevo contemplato anche il disegno di ricerca: ad esempio, avevo escluso i case studies. Poi mi sono resa conto che proprio per il tipo di metodologia utilizzata, effettivamente, l’approccio narrativo è fondamentale per indagare situazioni particolari. Per esempio, le malattie rare, nelle quali molto spesso si lavora con casi di studio. Il grandissimo vantaggio del dato narrativo è quello di riuscire a entrare in profondità nella storia di malattia e questo è possibile anche e soprattutto in casi individuali o in pochi casi che condividono degli aspetti comuni di malattia. In un lavoro di ricerca del genere è veramente difficile poter includere un gruppo di controllo o poter fare un lavoro di randomizzazione quando si lavora con la narrazione come metodo di intervento. Alla fine, però, si è deciso di includere anche questi articoli nella review, proprio perché mi sembrava un risultato molto interessante anche questo, cioè il fatto che si può lavorare con la narrazione sia con grandi gruppi di pazienti che con patologie più specifiche o case studies che presentano delle storie di malattia più complesse ma altamente singolari. Secondo me, questo è un altro risultato interessante. È un limite del lavoro di review che però si trasforma in un risultato interessante per gli operatori dell’approccio.
In questo caso, c’è l’esigenza di avere più informazioni sul tipo di malattia e anche sulle caratteristiche del campione.
Sì, esatto. A seconda del tipo di malattia si apre uno scenario del tutto unico e singolare. Anche per gli effetti e le conseguenze sulla vita, i progetti e gli obiettivi del paziente che il clinico dovrebbe prendere in considerazione. Ovviamente se questi dieci studi hanno contemplato episodi di malattia diversi, campioni diversi, in un certo senso, storie del tutto diverse, rappresentano una grandissima ricchezza, però non si può pretendere che diventi un approccio evidence-based.
Su dieci studi selezionati, cinque sono italiani. Abbiamo un primato in questo campo?
Ho avuto la possibilità di formarmi anche all’estero e posso dire che siamo effettivamente tra i primi paesi che utilizzano questo approccio in ambito applicativo, nella ricerca e nel lavoro clinico quotidiano. Per esempio, ho avuto modo di passare un periodo a Londra nel centro di Medical Humanities del professor Brian Hurwitz, che è uno dei padri dell’approccio della Medicina Narrativa insieme a Rita Charon. Hurwitz ha sempre riconosciuto che effettivamente l’Italia è uno dei paesi in cui si cerca veramente di perseguire questo approccio e di lavorare anche in ambito applicativo.
Qual è la situazione all’estero?
Per la mia esperienza, si lavora moltissimo con l’approccio della Medicina Narrativa, ma con gli operatori sanitari. Il lavoro è indirizzato di più alla formazione del clinico, della persona che lavora a stretto contatto tutti i giorni con le storie di malattia. E questo è assolutamente in linea con la definizione di Medicina Narrativa che è stata concordata nella Consensus Conference di Roma, cioè come uno strumento di intervento proprio per il medico, l’infermiere e in generale per l’operatore sanitario. Anche questa è una riflessione ulteriore che andrebbe fatta.
Che intende?
Proprio perché a Roma abbiamo trovato una definizione comune che considera questo approccio come una metodologia d’intervento utilizzabile dal clinico, allora insegniamo ai clinici a utilizzare, a fare proprie quelle competenze narrative che sono già di per se innate ma forse si perdono un po’ via via in favore dell’approccio evidence-based tipico della medicina.
E’ impegnata anche nella formazione?
Con Gabriella Pravettoni e altri colleghi dello Ieo abbiamo lavorato su un primo tentativo di fare formazione agli studenti di medicina e di odontoiatria con un corso specifico dedicato alla Medicina Narrativa. Si tratta di un primo tentativo all’interno dell’Università Statale di Milano. Siamo partiti da un modello più estero e quindi dal considerare questo approccio come un modello di formazione. Abbiamo fatto un corso di sei ore con gli studenti di odontoiatria nel corso di quest’anno, facendo una valutazione pre e post test sulle competenze di comunicazione e le competenze narrative degli studenti e i risultati sono stati interessanti. Ora stiamo provando a pubblicarli. L’idea è quella di cercare di ripartire proprio dall’approccio di Medicina Narrativa inserita all’interno di un modello che è quello delle Medical Humanities.
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