Da una lunga pratica di ascolto dei bisogni espressi dagli operatori e di interlocuzione con la loro ricerca di “buona medicina” per il fine vita nascono le riflessioni che Sandro Spinsanti espone nel suo ultimo libro Morire in braccio alle Grazie. Il volume, di cui pubblichiamo qui il Prologo per gentile concessione dell’editore Il Pensiero scientifico, sarà presentato a Spoleto giovedì 18 gennaio (Sala Pegasus, ore 16) in un incontro con l’Autore a cui parteciperanno anche Paolo Trenta dell’Osservatorio Medicina Narrativa Italia – OMNI, Marta De Angelis dell’AssociazioneAglaia Spoleto e Maria Stefania Gallina, responsabile del Servizio Formazione, Comunicazione e Relazioni con il Pubblico dell’Usl Umbria2.
Sì, caro lettore: metto subito avanti le mie scuse. Non tanto per la sgradevolezza del tema – le cure di fine vita – quanto per la mia carenza di qualificazione. Premesso che gli unici autorizzati a parlare di morte per esperienza diretta – i morti stessi – non sono in grado di farlo, è sempre dall’esterno che possiamo approcciare il morire: l’evento più universale e più sfuggente del vissuto umano. La mia esperienza è indiretta al quadrato. Al di là delle vicende biografiche personali, che prima o poi non ci risparmiano la perdita di qualcuno che fa parte della nostra cerchia di intimi, ho avuto l’opportunità di ascoltare e accompagnare coloro che accompagnano i morenti. È soprattutto dalla loro esperienza che ho imparato, esercitandomi nell’ascolto.
Nella mia vita professionale, dedicata alla formazione dei curanti nell’ambito della bioetica e delle medical humanities, considero un vero privilegio aver incontrato i pionieri delle cure palliative in Italia. Ho condiviso il loro progetto fin dall’inizio, associandomi ai fondatori della Società Italiana di Cure Palliative (1987). Con loro ho conosciuto la diffidenza degli inizi, la marginalità nel contesto delle cure mediche, l’attenzione inaspettata a causa dell’impasse per le cure oncologiche, il progressivo riconoscimento, fino al pieno diritto di cittadinanza nel contesto delle cure mediche e dell’organizzazione sanitaria. Mi appoggio, quindi, al sapere dei “palliativisti”. Soprattutto quelli della prima ora, quando parlare di questa modalità di cura equivaleva a infrangere il tabù di una medicina che si riconosceva solo negli interventi curativi.
A questo punto di osservazione privilegiato posso aggiungere il coinvolgimento nelle attività di formazione per il personale delle residenze per anziani promosse dall’ANSDIPP, l’Associazione Nazionale dei Manager del Sociale e del Sociosanitario. Entrando in queste strutture è quasi inevitabile dar corpo alla metafora abusata della “cultura dello scarto”. Soprattutto ci si rende conto che, ai margini di quella parte della società che produce e consuma, queste istituzioni hanno subìto un lento scivolamento: da “case di riposo” – come ancora alcune strutture si ostinano a chiamarsi – sono diventate ospedali per lungodegenti e infine hospice, ovvero luoghi dove si viene accompagnati fino al transito oltre l’ultima soglia. Introdurre la cultura di cure palliative in questi ambiti è un’assoluta priorità sociale. La palliazione, che ha formulato la propria concezione teorica e le proprie pratiche soprattutto nell’ambito dell’oncologia, si deve misurare ora con le tante altre patologie degenerative inguaribili. E soprattutto con la mortalità che è insita nella vita stessa, come ci ricorda la geriatria.
Da ultimo – ma non per ordine di importanza – desidero evocare il coinvolgimento con le attività di cura e di formazione promosse da FILE, l’associazione fiorentina che promuove la “leniterapia” (altro nome per designare le cure palliative) con interventi sia domiciliari che residenziali. Da questo contesto è scaturita la proposta di una scuola di formazione rivolta agli operatori dell’assistenza che devono accompagnare nell’ultimo tratto di strada i malati cronici e i grandi anziani.
La lunga pratica di ascolto dei bisogni espressi dagli operatori e di interlocuzione con la loro ricerca di “buona medicina” quando la vita declina verso il compimento costituisce il contesto di queste riflessioni. L’argomento proposto non è, in generale, la vecchiaia: esecrata da molti, addomesticata da altri (soprattutto se rinominata “terza età”). Senza circonlocuzioni: stiamo parlando del morire da vecchi. Di ciò che la medicina può fare o omettere di fare, per assicurarci una morte buona/degna/umana… La scelta dell’aggettivo è libera; purché il sostantivo che vogliamo qualificare non ne risulti deformato. Purché la morte rimanga, nei tempi e nei modi, il coronamento di una vita e non la sua distorsione caricaturale. Facciamo scivolare sullo sfondo le vibranti polemiche pro o contro l’eutanasia. Mobilitiamoci piuttosto per dire – in teoria e in pratica – un no alla “distanasia”, ovvero alla morte deformata che ci aspetta sogghignando dietro l’angolo, se non prendiamo le misure precauzionali adeguate. A parziale compensazione della mia scarsa competenza, ho scelto di farmi accompagnare nel percorso da alcuni scrittori, dai quali ho tratto luce sul tema. Troverai, paziente lettore, riferimenti alle loro narrazioni disseminate lungo il percorso. Approfittane per prendere una pausa, per volare più in alto.
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