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Pandemia, le riflessioni di un medico di famiglia

24 Agosto 2020 - di Tiziano Scarponi

Dalla prima drammatica fase della pandemia alle ultime settimane del lockdown, un medico di famiglia racconta come la paura del contagio, il distanziamento e le tecnologie telematiche abbiano cambiato il suo modo di lavorare e di rapportarsi con i pazienti

[Aprile 2020] Impossibile in questo momento prevedere come sarà il futuro della medicina di famiglia! In pieno tsunami sta cercando di rigenerarsi, di aprire nuovi percorsi: fondamentali sono i gruppi FB e WhatsApp in cui condividiamo ansie, comportamenti clinici, problemi medico-legali che di fatto stanno delineando il futuro della nostra professione.
Se fossi in grado di proiettare un video della mia medicina di gruppo composta da 7 colleghi, con un’utenza di 9000 pazienti, potrebbe essere considerato paradigmatico della vita professionale di questi giorni. Sala d’aspetto e corridoio vuoti. Le seggiole accatastate con sole 3 o 4 disponibili per potersi sedere, opportunamente distanziate. Noi medici tutti in camice e mascherina che ogni tanto, ognuno sulla soglia del proprio studio per mantenere la distanza di sicurezza, parliamo ed esprimiamo come viviamo la nostra angoscia del contagio soprattutto nei confronti delle proprie famiglie. Su come ci troviamo a gestire il nostro lavoro tramite telefono per circa il 70%, come abbiamo risolto il problema dell’invio telematico delle ricette e dei certificati, dove abbiamo trovato le mascherine. Senza dubbio niente sarà più come prima.

Mi alzo il mattino alle 6,30 per essere alle 8 in ambulatorio dove inizia il mio lavoro “istituzionale”: invio telematico di ricette che trovo su segreteria telefonica, su email, su messenger e WhatsApp.

Due telefoni, fisso e cellulare, che squillano continuamente: in media dalle 110 alle 130 telefonate al giorno. Odi et amo: mi viene in mente pensando al telefono. Lo odio perché il suo squillo mi sta lacerando il cervello. Lo amo perché senza di lui mi sentirei finito come si sentirebbero persi i miei pazienti se non dovessero sentire più la mia voce attraverso lui. Dubbi, preoccupazioni, conforto, consigli, prescrizioni e commiserazione, al momento passa quasi tutto attraverso lui. Allo stato attuale il telefono è il mio occhio, la mia mano: sempre acceso giorno e notte, sette giorni su sette.
Quando il telefono non è sufficiente il paziente viene a studio concordando prima con me il suo accesso: “Mi raccomando venga puntuale alle ore x per evitare che si formino code, indossi una mascherina chirurgica”. La seduta è completamente cambiata: non più strette di mano, non più accoglienza empatica, non sono ancora riuscito a elaborare un nuovo modello di contatto: la voce è falsata dalla mascherina che mi fa vedere solo gli occhi e la fronte. Spesso sono più concentrato sul tipo di mascherina che il paziente indossa, sul tempo che ci mette a raccontarmi la sua storia e su quello che impiego io per raccogliere l’esame fisico, l’esame obiettivo. Il modo di vivere la visita domiciliare è ancora peggiore. Rapido, telegrafico, preoccupato soprattutto se il paziente è molto anziano e vive da solo e presenta difficoltà nel recepire quello che dico.

E’ strano! Forse non è strano, ma mi sto rendendo conto che non sono più me stesso. Mi sento più soddisfatto di come curo in modo virtuale piuttosto che in quello reale. Per telefono riesco ad essere più vicino, più Tiziano alla vecchia maniera. Con il paziente davanti, in carne ed ossa, mi spiace dirlo, ma mi sento in ansia, percepisco la sua presenza quasi come un fastidio, come se avessi davanti a me un nemico… forse dovrei crearmi un avatar.
A questo punto è d’obbligo qualche considerazione sugli scenari futuri che si stanno delineando per la mia professione. E’ molto difficile che si torni a lavorare come si lavorava prima della pandemia, anche se nessuno sa, poiché al momento tutte le prestazioni non urgenti non vengono soddisfatte, come si svilupperà la situazione una volta che sarà smaltita l’onda di riflusso delle prestazioni che erano state differite. Ci troveremo di fatto una popolazione nuova di pazienti che ha imparato a venire in ambulatorio quasi solo per appuntamento. Che dovrebbe avere imparato a venire per dei problemi più strettamente sanitari. Che dovrebbe aver imparato ad usare la tecnologia in generale e quella medica in particolare. Oramai moltissimi si sono dotati di saturimetro e sfigmomanometro e che “smanettano” su App che sono in grado di monitorare diversi problemi o parametri clinici.

Il teleconsulto per la patologia cronica, che credo resterà per la maggior parte in carico a noi, dovrà diventare prassi quotidiana. Mi immagino che il medico di famiglia entrerà dentro l’ambulatorio come se entrasse dentro una cabina di regia con tanti cruscotti e monitor in grado di fare una verifica in tempo reale, ogni ventiquattro ore, dei parametri sottoposti a monitoraggio di ogni singolo paziente. Facciamo l’esempio dello scompenso cardiaco: peso corporeo, indice di dispnea, saturazione dell’ossigeno, assunzione dei farmaci saranno informazioni fruibili quasi all’istante e pertanto sarà quasi automatico il richiamo del paziente per una valutazione diretta, oppure andare a domicilio per un esame clinico approfondito. Certo! Sono scenari che si adattano meglio a colleghi e pazienti nativi digitali, e lasciano in affanno noi “vecchi” medici, ma la medicina di famiglia se vorrà sopravvivere dovrà fare questo salto tecnologico accompagnato sempre da una modalità empatica e narrativa che sono e saranno sempre delle peculiarità di questa professione.

Trauma da pandemia, adattamento, rigenerazione e “costruzione” di un nuovo rapporto tra medico e paziente. Una nuova co-costruzione ci attende. Noi medici e noi pazienti, magari molto più “smart”.

Mentre sto arrivando alle conclusioni di questo breve scritto è passato qualche giorno da quando lo avevo iniziato e già sto notando come il mio “setting” si stia adattando a recuperare il rapporto con i pazienti in modo rilassato e senza fretta. Mi sto abituando a superare l’ansia del contagio, forse anche perché la dotazione di dispositivi medici di sicurezza è aumentata. Forse perché a mia volta ho avuto un contatto a rischio con un paziente Covid-19 e sono stato “tamponato”, fortunatamente con esito negativo. Forse perché mi sto abituando ad entrare in casa passando per il garage svestendomi, gettando mascherina e guanti nei contenitori di smaltimento rifiuti speciali, disinfettandomi le mani, indossando una tuta che uso solo dentro le mura della mia abitazione. Non bacio più né moglie né figli. Non vedo più il mio primogenito, medico anche lui, dal mese di febbraio: una scelta fatta di proposito per spalmare le probabilità di contagio al 50% fra noi due…così è la vita all’era del Coronavirus.


Questo articolo di Tiziano Scarponi fa parte di una raccolta di scritti dei soci Aiems -Associazione italiana medicina sistemica pubblicata dalla rivista Riflessioni sistemiche (“Una finestra sulla pandemia“, aprile 2020)e, insieme ad altre testimonianze di medici, è apparso su un numero speciale del Bollettino dell’Ordine dei medici della provincia di Perugia dedicato all’emergenza coronavirus (maggio 2020).

Tag: coronavirus, pandemia, telemedicina

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