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L’importanza delle parole e del linguaggio nel problema delle dipendenze

22 Marzo 2017 - di Stefano Canali

di Serena Nicchiarelli e Stefano Canali

In ambito scientifico, il linguaggio e le parole utilizzati da professionisti e ricercatori per descrivere sintomi e caratteristiche di un dato disturbo rendono anche possibili le spiegazioni, la ricerca e le valutazioni mediche. Nella sua interazione con la lingua di uso comune, però, questo vocabolario concorre di fatto anche a permearsi e veicolare particolari norme sociali, influenzando l’atteggiamento nei confronti dei soggetti affetti da un particolare disturbo sia dei cittadini che degli operatori che si occupano della cura e dell’aiuto di chi ne soffre.

Il codice deontologico imporrebbe agli specialisti di riferirsi ai propri pazienti con massimo rispetto e assoluta neutralità morale. Purtroppo la storia ha dimostrato che il linguaggio medico può talora rendersi complice nella perpetrazione di pregiudizi sociali, e costituire anche un ostacolo a una genuina comprensione scientifica, e ciò soprattutto nel campo dei disturbi del comportamento. In questi casi, in effetti, si assiste alla spiacevole proliferazione di marchi e discriminazioni; i pazienti vengono “etichettati” sulla base di precise caratteristiche associate al disturbo e collocati in categorie specificamente pensate per segnare una netta demarcazione dicotomica che distingua il “sano” dal “malato”, il “noi” dal “loro”[1].

Queste tematiche complesse e delicate assumono oggi una straordinaria rilevanza nell’ambito delle dipendenze. Sebbene possano essere sottoposte a terapie e seguire percorsi riabilitativi, le persone con disturbi da uso di sostanze continuano in ogni caso ad essere oggetto di stigmatizzazione. Le etichette sociali in questi casi tendono a implicare (e talvolta anche a veicolare esplicitamente) l’idea che gli individui con problemi di dipendenza siano moralmente colpevoli per i loro disturbi; i pazienti vengono così additati nei termini di “tossici” e “drogati”, e descritti esclusivamente in riferimento alla loro dipendenza o ai fallimenti personali che ne derivano.

La scelta delle parole, ha quindi un peso e un’importanza, tanto più se il linguaggio utilizzato per indicare le persone con disturbi da uso di sostanze ha ricadute pratiche, influenzando di fatto giudizi e valutazioni anche tra professionisti in ambito clinico. A tal proposito, in effetti, la ricerca empirica ha chiaramente dimostrato come, al variare dell’espressione utilizzata per riferirsi a tali soggetti, vari anche il comportamento altrui nei loro riguardi[2]. Sebbene si tratti di fatto di sottili distinzioni meramente semantiche, una “persona che abusa di sostanze” e una “persona che presenta disturbi nell’uso di sostanze” sono destinate a ricevere un trattamento diverso. Il personale medico e clinico, infatti, è risultato maggiormente incline ad individuare colpe e necessità di ricorrere a misure punitive nel caso avesse a che fare con “persone che abusano di sostanze”, ritenute al contempo meno meritevoli di ricevere un trattamento riabilitativo rispetto alle più fortunate “persone con disturbi nell’uso di sostanze”.

Un uso inappropriato del linguaggio clinico si traduce quindi in un risultato negativo, dovuto a un minore livello di e e impegno da parte dell’assistenza sanitaria. Le stigmatizzazioni associate a particolari terminologie, d’altra parte, hanno delle ricadute dirette anche sullo stesso soggetto che presenta il disturbo. Come sottolineato dal National Survey on Drug Use and Health realizzato negli Stati Uniti nel 2014 [3], durante gli ultimi anni solo una piccolissima percentuale di persone con disturbi da dipendenze (circa il 9%) ha deciso di sottoporsi a specifici trattamenti di riabilitazione; una situazione comune anche nel nostro paese. Tra le principali ragioni vi sono: 1) l’idea che ricevere un trattamento specifico per problemi di uso di sostanze esporrebbe al rischio di essere giudicati negativamente sia in ambito lavorativo che sociale; 2) la convinzione di non aver bisogno di alcun trattamento; 3) i costi elevati; 4) la mancanza di copertura assicurativa per le prestazioni sanitarie. Gli ultimi due punti hanno ovviamente un impatto minore in Italia nel determinare lo scarso accesso alle cure delle persone con problemi di dipendenze.

Da più parti vengono proposte urgenti misure di intervento, orientate all’adozione di uno specifico linguaggio clinico nell’ambito delle dipendenze, un ad-dictionary[4] finalmente svincolato da qualunque forma di stigmatizzazione discriminatoria. Su questa scia, ad esempio, all’interno della quinta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders5 (DSM-5), non si parla più di ”abuso” o “dipendenza” ma di “disturbo nell’uso di sostanze” . Naturalmente, se pur evidentemente indispensabili, i soli cambiamenti linguistici non sono di per sé sufficienti. È  necessario intervenire attraverso l’introduzione di precisi programmi educativi che siano in grado di estirpare stereotipi e stigmatizzazioni profondamente radicate all’interno della società. Si tratta di politiche sociali che richiedono tempo e costanza. È certo però che iniziare ad avviare questo complesso processo di rimozione delle barriere sociali può, senza dubbio, significare la possibilità di un futuro migliore per le persone con disturbi da dipendenze che, ad oggi, continuano ad avere grande difficoltà a chiedere e ottenere l’aiuto di cui hanno certamente bisogno.

Riferimenti bibliografici

[1] Kelly, J.F., & Westerhoff, C. M. (2010). Does it matter how we refer to individuals with substance-related conditions? A randomized study of two commonly used terms. International Journal of Drug Policy, 21(3), 202-207.

[2] Kelly J.F., Dow SJ, Westerhoff C. (2010). Does our choice of substance-related terms influence perceptions of treatment need? an empirical investigation with two commonly used terms. J Drug;40 (4):805-818.

[3] Substance Abuse and Mental Health Services Administration, Center for Behavioral Health Statistics and Quality. Results from the 2014 National Survey on Drug Use and Health www.samhsa.gov/data/sites/default/files/NSDUH-FRR1-2014/NSDUH-FRR1-2014.pdf.

[4] Kelly, J.F., Sait,z R., & Wakeman, S., (2016) Language, Substance Use Disorders, and Policy: The Need to Reach Consensus on an “Addiction-ary”, Alcoholism Treatment Quarterly, 34:1, 116-123.

Stefano Canali è ricercatore e docente di filosofia delle neuroscienze alla Sissa di Trieste. E’ autore del blog Psicoattivo, da cui è tratto l’articolo qui pubblicato.

Tag: dipendenze, linguaggio, pratica clinica

Info Stefano Canali

Ricercatore dell’Area Neuroscienze e del Laboratorio Interdisciplinare della Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati, dove dirige la Scuola di Neuroetica. E’ presidente del Comitato Scientifico della Società Italiana Tossicodipendenze e redattore della rivista Medicina delle Tossicodipendenze – Italian Journal of Addiction. E’ autore di circa un centinaio di pubblicazioni sul tema delle sostanze e delle dipendenze e del blog Psicoattivo.

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