L’empatia, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, intuendone emozioni e bisogni, è ritenuta una componente importante nella relazione di cura, in grado di influenzare positivamente la salute del paziente e anche il benessere del medico. In particolare, chi avverte l’esigenza di una umanizzazione della medicina sottolinea l’importanza di coltivare nei futuri medici quella che può essere una maggiore o minore inclinazione personale, invertendo, così, l’attuale tendenza che vede gli studenti di medicina divenire sempre meno empatici nel corso della formazione universitaria. Di non reprimere, cioè, ma potenziare quel sentimento che ci fa solleciti nell’alleviare la condizione di disagio o sofferenza di un nostro simile, sviluppando capacità di “cura empatica”.
L’empatia però, può avere anche un lato oscuro, sfociare in una sorta di intolleranza emotiva che rende insopportabile la vista della sofferenza altrui, fino al punto di desiderare di evitarla. E’ quello che viene definito stress empatico, emphatic distress, tra le principali cause di burnout nelle professioni sanitarie. Ma come si spiegano questi effetti così opposti dell’empatia e come si relazionano fra loro? A fare un po’ di chiarezza è uno studio dell’Università del Colorado pubblicato di recente su Neuron, secondo il quale cura empatica e stress empatico corrisponderebbero nel cervello all’attivazione di aree distinte.
La ricerca ha coinvolto 66 volontari sottoposti a risonanza magnetica funzionale durante l’ascolto di 24 brevi storie di sofferenza umana. Usciti dallo scanner, gli stessi soggetti hanno riascoltato le storie annotando “in diretta” sentimenti e stati d’animo suscitati dalle diverse situazioni narrate.
Diversamente da quanto avviene per gli input sensoriali, l’attività empatica non è riconducibile a una specifica area ma è piuttosto un processo distribuito. Nel caso della cura empatica, riportano gli autori della ricerca, si attivano le aree cerebrali associate al concetto di valore morale e alla ricompensa, intesa come gratificazione in seguito ad un risultato ottenuto. Si tratta della corteccia prefrontale ventrocentrale e della corteccia orbitofrontale mediale, due zone implicate, per esempio, nella capacità di prendere decisioni, nel prestare attenzione e nel controllare alcuni aspetti della personalità. Lo stress empatico, invece, attiva la corteccia prefrontale e la corteccia somatosensoriale primaria e secondaria, sede di quei processi che ci permettono di capire sentimenti e pensieri degli altri. I pattern di attivazione sono risultati perfettamente sovrapponibili tra tutti i volontari.
In una seconda indagine è stato chiesto ad altri 200 volontari di ascoltare e commentare puntualmente, momento per momento, le medesime storie, attribuendo un punteggio alle emozioni provate per realizzare una mappatura dei sentimenti. “La cura empatica è animata da emozioni che includono sia il dolore sia la sollecitudine, la spinta a prendersi cura dell’altro”, spiega Yoni Ashar, il primo autore dello studio. La mera identificazione con l’altro che soffre, invece, è accompagnata da sentimenti negativi , tristezza, rabbia, paura, disgusto. Una condizione che alla lunga porta al burnout in tante professioni tese all’aiuto degli altri, dai medici agli psicologi, dagli infermieri ai poliziotti.
“L’empatia è una capacità fondamentale nell’interazione umana, chiama in campo risorse personali per fornire un aiuto agli altri”, scrivono i neuro scienziati. “Per questo, è necessario imparare a ‘sintonizzarsi con gli altri sulla giusta frequenza’, ovvero in modo da non rimanere soltanto colpito dalle emozioni negative ma di riuscire a mettere in atto una risposta positiva”. Per curare al meglio.
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