Perché in questa pandemia si parla di “distanziamento sociale” quando in realtà è richiesto il distanziamento fisico? L’analisi di Davide Bennato, sociologo dei media digitali, sulle pagine di Forward.
Uno dei termini ricorrenti che hanno popolato il panorama comunicativo della fase 1 della pandemia e che sta continuando a caratterizzare la fase 2 – anche se con meno forza – è senza dubbio quello di distanza sociale, ovvero l’idea della necessità di mantenere un distanziamento dalle altre persone per cercare di abbassare il tasso di riproducibilità del contagio, il famoso parametro R0.
Il distanziamento sociale, inteso come processo di riduzione dei contatti, è un concetto tecnico di tipo non farmacologico dell’epidemiologia, che consiste nel limitare le situazioni di vicinanza fisica tra le persone per ridurre la probabilità di infezione e controllare la diffusione di una malattia contagiosa. Da un punto di vista teorico è piuttosto intuitivo: se si entra in contatto con meno persone ci sono meno probabilità di infettare o essere infettati. Ciononostante sulle prime battute della pandemia, pur essendo un concetto semplice da capire era molto difficile da giustificare perché – come abbiamo avuto modo di sperimentare sulla nostra pelle – riduce notevolmente la libertà di circolazione delle persone. Questa situazione ha dato vita a un vero e proprio sottogenere giornalistico in auge durante i mesi di lockdown che potremmo definire “esegesi del distanziamento sociale”, in cui gli articoli si sforzavano di spiegare non solo le motivazioni scientifiche alla base, ma anche la necessità di prendere confidenza con un concetto controintuitivo che si scontrava con il buonsenso della vita quotidiana.
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