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Oms: fermiamo la Covid-19 curando la comunicazione

10 Marzo 2020 - di Marina Bidetti

Contagio, isolamento, casi sospetti. Ma anche: “virus cinese” o “virus di Wuhan”, “epidemia lombarda”. Sono solo alcune delle tante parole che in queste settimane di emergenza Covid-19 riecheggiano sui media e nelle nostre teste. Parole, purtroppo, non sempre chiare e tempestive, e dunque poco utili a informare sui comportamenti corretti da assumere, necessariamente, per proteggersi e per non farsi complici del coronavirus. E talvolta, pur nella loro apparente innocuità, a loro volta “virulente” e capaci di impattare negativamente sull’evoluzione dell’epidemia. Come hanno sperimentato per primi i cittadini cinesi nel nostro paese, discriminati sulla base di una associazione automatica “cinese-coronavirus”, e come ahimè stiamo ora sperimentando noi italiani da parte di altri paesi in Europa e nel mondo, per la presenza sul nostro territorio dei primi importanti focolai.

L’epidemia corre con la paura

Ma in che modo lo stigma sociale può farsi complice, addirittura fiancheggiatore della Covid-19? Lo spiega l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in una guida rivolta a istituzioni governative, media, e organizzazioni che si occupano di Covid-19 redatta in collaborazione con l’International Federation of Red Cross and Red Crescent Society e l’Unesco. Il documento Oms ricorda a tutti quanto le parole se mal utilizzate, con espressioni verbali che consolidano stereotipi o rafforzano associazioni scorrette tra malattia ed altri fattori, come per esempio l’aspetto o l’origine geografica, possano vanificare gli sforzi di contenere il contagio. Perché colpevolizza chi ne è oggetto, generando preoccupazione e resistenza a farsi controllare, sottoporsi a test di screening, a curarsi e a stare in quarantena. Insomma, lungi dal favorire il necessario “isolamento sociale” del virus, che solo può fermare il propagarsi della malattia, ne favorisce la clandestinità, l’occultamento, con tutte le conseguenze che può comportare.

Non puntare il dito

Lo stigma sociale associato al nuovo coronavirus, spiegano gli autori della la guida, è dovuto a tre principali fattori. Il primo è che la Covid-19 è una malattia completamente nuova e sconosciuta. Questa circostanza genera incertezza e preoccupazione (secondo fattore) , da cui emergono facilmente sentimenti di sospetto nei confronti degli “altri” (terzo fattore). Questa dinamica, nutrita di false credenze, fake news o, semplicemente, da sbrigative semplificazioni (“Non portate nella vostra Puglia l’epidemia lombarda, veneta ed emiliana”, ha tuonato, invano, il Governatore della Puglia Emiliano poche ore prima dell’ultimo decreto legge che ha bloccato a casa tutti gli italiani).

Parlare chiaro, curando le parole

Il modo in cui parliamo della Covid-19 è dunque fondamentale per supportare le persone a intraprendere azioni efficaci contro la malattia. “È necessario creare un clima in cui la malattia e il suo impatto possano essere discussi e affrontati in modo aperto, onesto ed efficace”, si legge nel documento, che invita tutti coloro che sono impegnati a contenere l’epidemia a comunicare con le persone attraverso un linguaggio semplice e chiaro, a spiegare accuratamente la malattia e le misure efficaci da mettere in pratica.

Ecco, quindi, secondo gli esperti dell’Oms, le cose “da fare” e “non fare” in termini di linguaggio quando si parla della Covid-19, per prevenire e affrontare lo stigma sociale. Per prima cosa, secondo gli esperti, bisogna parlare del nuovo coronavirus, senza associare luoghi o etnie alla malattia, evitando per esempio espressioni come “virus di Wuhan”, “virus cinese” o “virus asiatico”. Infatti, il nome ufficiale della malattia è stato scelto appositamente per evitare la stigmatizzazione: “Co” sta per Corona, “Vi” per virus, “D” per malattia, e 19 per l’anno in cui è emersa. 

L’Oms raccomanda di parlare dell’andamento dell’epidemia riferendo delle “persone” che hanno la Covid-19, che sono in cura, che si stanno riprendendo o che sono decedute dopo averla contratta, e non di “casi” o “vittime”. Stesso discorso vale per chi potrebbe avere la malattia, che non va appellato come “caso sospetto“. E ancora: bisogna parlare di persone che hanno contratto la malattia e non di persone che trasmettono la Covid-19, infettano gli altri e diffondono il virus. Queste espressioni, infatti, creano l’impressione che chi ha la malattia abbia in qualche modo fatto qualcosa di sbagliato o sia colpevole, alimentando così lo stigma, minando l’empatia e potenzialmente alimentando una maggiore riluttanza a farsi curare o a sottoporsi a screening, test e quarantena.

Infine, la guida invita a presentare in modo positivo l’efficacia delle misure protettive per prevenire l’acquisizione del nuovo coronavirus. “Per la maggior parte delle persone la Covid-19 è una malattia curabile”, si legge nel documento. “Ci sono semplici passi che tutti possiamo fare per mettere al sicuro noi stessi e i nostri cari. Dobbiamo lavorare insieme per aiutare a proteggere le persone più vulnerabili”.

Riferimenti: Oms, Iss

Tag: comunicazione istituzionale, comunicazione medico-paziente, sistema sanitario

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