Informare, ascoltare e consigliare il paziente sulla terapia: è quello che fanno ordinariamente tanti professionisti che si trovano al di là del bancone nelle farmacie territoriali. E che per questo sono riconosciuti dai cittadini come punti di riferimento in tema di salute. Perché, allora, non valorizzare in questo senso il ruolo del farmacista ospedaliero, spesso visto dagli assistiti come un mero “controllore” della prescrizione? La risposta affermativa arriva da uno studio condotto presso l’unità operativa di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale San Francesco di Nuoro che ha evidenziato quanto un approccio narrativo da parte del farmacista, e il suo inserimento all’interno dell’èquipe medico-sanitaria, possa beneficiare l’aderenza alla terapia da parte dei pazienti.
Il counseling farmacologico
Sempre più spesso negli ospedali si sente parlare di counseling, ma raramente di quello farmacologico. Ancora poco conosciuta e poco praticata, questo attività consente al farmacista di costruire un rapporto di fiducia con il paziente, prestando ascolto alla sua esperienza personale e informandolo sul funzionamento dei farmaci. In quanto esperto del farmaco a 360°, il farmacista può contribuire in modo significativo – specie nei pazienti con patologie croniche, quindi, con necessità di trattamenti complessi e di lunga durata – a ridurre il fenomeno della scarsa aderenza alla terapia.
Comprendere il punto di vista dei pazienti dell’ospedale riguardo alla figura del farmacista ospedaliero e al suo inserimento nell’équipe curante, individuare i punti di forza e di debolezza nel rapporto farmacista-paziente sono stati gli obiettivi della ricerca svolta presso l’ospedale di Nuoro. Lo studio ha coinvolto 60 pazienti dell’unità di Nefrologia e Dialisi che sono stati invitati a compilare un questionario.
“Dall’analisi qualitativa” scrivono gli autori dello studio pubblicato sul Giornale di Tecniche Nefrologiche & Dialitiche, “è emerso come la medicina narrativa si sia rivelata utile per i pazienti, che hanno avuto la possibilità di ridefinire e rivalutare la propria storia, mostrandosi disponibili al dialogo con il farmacista ospedaliero e rispondendo in maniera esaustiva alle domande proposte durante l’intervista strutturata”.
Umanizzare la farmacia ospedaliera
Tra i diversi risultati, spiccano significative differenze di genere nell’approccio alla terapia, con le donne di gran lunga più interessate agli aspetti psicologici e relazionali di quanto lo siano gli uomini. In generale, tuttavia, emerge chiaro il bisogno da parte dei pazienti di comunicare maggiormente e di avere un rapporto più umano con il farmacista ospedaliero. Si tratta infatti di persone affette da patologie croniche e per lo più anziane, che vivono l’ospedale come una seconda casa e, di conseguenza, ricercano quelle dinamiche relazionali a cui sono abituati all’esterno, dove il farmacista diventa spesso un punto di riferimento. Molti degli intervistati hanno riferito una differenza tra la figura del farmacista privato, percepito come più amichevole, e quello ospedaliero, definito troppo distaccato, pignolo e attento solamente alla correttezza della prescrizione.
I pazienti desiderano quindi un farmacista con maggiori competenze narrative e in grado di instaurare con loro un rapporto empatico. Un professionista che faccia gioco di squadra con gli altri membri dell’equipe di cura e li guidi, al momento del ritiro dei farmaci, lungo il tortuoso percorso dell’aderenza terapeutica.
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