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Essere, raccontare, esistere: le narrazioni

20 Ottobre 2020 - di Redazione OMNINEWS

“Essere raccontare, esistere: la narrazione nel lavoro di cura” è il titolo di una serie di corsi di Medicina Narrativa svoltisi nell’Area Territoriale di Pistoia che ha visto impegnati come docenti sia professionisti, medici e operatori sanitari, sia pazienti. Alcuni di loro hanno sentito il bisogno di raccontarsi, di riflettere sul significato dell’esperienza di formazione e non solo. Ecco le loro storie

Ho ripreso il respiro

di Rossella Aiardi, ex infermiera

Esco dall’Ospedale. È sabato. Sono ormai le 14. Mi pervade la stanchezza di una settimana appena trascorsa, di intenso lavoro. Ma sono carica, gli occhi lucidi, la mente affollata di persone, parole, sguardi, quelli intensi e rari.

Ieri ed oggi si presentano a me come appuntamenti pregni di significato, densi di emozioni, colmi di “… è importante quello che abbiamo fatto, vissuto, ascoltato, sentito …”. Ce lo diciamo sempre al termine di ogni edizione: siamo un gruppo di docenti costituito da persone che hanno attraversato la malattia e da professionisti della salute che ormai da anni, spinti da una grande passione per l’approccio narrativo nel lavoro di cura, si dedica alla progettazione e realizzazione di eventi di formazione aziendale.

Ieri ed oggi, altri giorni trascorsi a raccontare di noi, dei timori e delle possibilità, ad ascoltare nel difficile tentativo di comprendere di loro e di noi, ad osservarci, a versare lacrime di emozione che liberamente escono, a condividere il fragore inebriante delle risate, a scoprirci, a giocare, a sorprenderci insolitamente a parlare delle fatiche e delle bellezze del nostro lavoro di cura, a riflettere.

E cosi per quattro lunghi e intensi anni, prende forma un’esperienza verso la quale nessuno avrebbe scommesso; un’esperienza di formazione unica e straordinaria desiderata, cercata e voluta con fermezza e fierezza, che avviene per quanto mi riguarda a coronamento del mio lungo e meraviglioso percorso lavorativo. Si perché parlare di ascolto e narrazione, di gesti, parole e posture che favoriscono e cambiano il modo di prendersi cura dell’altro non è né semplice, tantomeno scontato. Ma ciò è stato possibile.

Così ascolto e narrazione, i due cardini della Medicina Narrativa, hanno riempito di significato questi anni di formazione, consentendo ad ognuno di noi, discenti e docenti di costruire insieme intenti, scoprire significati, attuare progetti clinico-assistenziali ed esplorare nuove possibilità nel lavoro di cura, “edificare ponti”. Quando al temine del corso i discenti (Infermieri, Medici, Ostetriche, Fisioterapisti, OSS…) uscendo dall’aula, si avvicinano e stringendoti la mano sussurrano: ”Grazie, grazie davvero!”, comprendo. Al di là di ogni indicatore strutturato di gradimento del corso, quel grazie, quello sguardo, quella stretta di mano diventano manifestazioni sincere, palpabili e intense, la certezza che affrontare alcune tematiche, non rappresenta solo il raggiungimento di un obiettivo previsto dal Piano Aziendale, bensì la risposta ad un bisogno che ogni professionista sente come urgente nel lavoro di cura: la Relazione. Bisogno questo, troppo spesso trascurato, schernito, occultato dalle decine e decine di prestazioni che si collocano come prioritarie, rispetto ad altro nel lavoro quotidiano. Ma questo bisogno è stato colto, apprezzato e valorizzato

L’esperienza si svela quindi come un osservatorio privilegiato da cui attingere i bisogni intangibili dei professionisti, quelli dei quali poco si parla, ma non per questo di minore rilevanza; il bisogno di essere ascoltati, il bisogno di trovare strumenti e spazi che favoriscano la relazione con i pazienti e l’intera equipe, il bisogno di raccontare l’esperienza dolorosa, faticosa e spesso celata del lavoro di cura, il bisogno di restituire al tempo della relazione con la persona assistita il valore e la dignità del tempo stesso della cura ( art. 4 Codice Deontologico dell’Infermiere aprile 2019).

Questo tempo dedicato alla formazione, strappato alla faticosa e complessa quotidianità lavorativa è divenuto un tempo “sospeso”, dove mi sono ritrovata, dove ho curato le mie ferite, dove ho dissetato l’aridità delle relazioni che a volte si vivono nel complesso mondo dell’organizzazione. Ma in questo tempo mi sono presa cura di me.

Luigina Mortari afferma: “Nella vita ciascuno desidera avere esperienza di luoghi e tempi privilegiati, di realtà dove sente di esperire qualcosa di essenziale. Una buona relazione di cura, dove l’altro ci mostra attenzione e comunica la capacità di co-sentire i nostri vissuti, è uno spazio privilegiato dell’essere. È uno slargo nell’affanno del vivere, una radura dove riprendere il respiro”.

Ecco, in questo viaggio ho trovato luoghi e tempi privilegiati. Ho avvertito l’urgenza di parlare di ascolto. Ho riflettuto sulla responsabilità ed il coraggio di chi quotidianamente affronta la cura dell’altro. Ho ritrovato e apprezzato parole come gentilezza, attenzione, attribuzione di senso, speranza. Sono giunta a uno slargo: ho ripreso il respiro.

Il coraggio che non credevo di avere

di Lucia Teresa Benetti, scrittrice, pittrice, paziente oncologica

Quando “prima di” mi chiedevano cosa facessi, rispondevo che scrivevo, dipingevo, partecipavo e organizzavo mostre, facevo la mamma, la moglie, l’amica fidata. Poi è arrivato “l’inciampo” chiamato cancro e la mia vita “dopo di” è diventata, per un lungo periodo di tempo, come sospesa. E così, alla stessa domanda, che spesso mi ponevano, rispondevo: sono una paziente oncologica che anche scrivo, tento di dipingere e che vorrebbe vivere al meglio, tenendo conto delle nuove possibilità che la nuova vita mi stava proponendo.

Il tempo, intanto, si era come dilatato uscendo dai quadranti. Le lancette hanno iniziato a girare in una maniera diversa e anche la mia vita ha incominciato ad assumere una piega completamente nuova. Anche negli incontri. La mia curiosità, però, la mia voglia di capire e di mettermi nei panni di chi mi stava davanti, non è andata mai un momento a scemare. Mi sarebbe piaciuto trovare persone che in maniera naturale cercassero di fare lo stesso con me in quei momenti in cui tutto era grigio. Tendente al nero. Dove ogni gesto, parola, silenzio acquistava un significato ben preciso. Dove vorresti una mano, una spalla, uno sguardo che ti consoli. Dove… e così ho scritto. Ho scritto quello che vedevo, quello che mi raccontavano, quello che, inevitabilmente, ero costretta a vivere.

Ma non mi sono fermata a questo. Sentivo che una nuova forza mi spingeva fuori. E sono ritornata ad essere quella Lucia che non stava mai zitta davanti alle situazioni che non capiva. Così ho iniziato ad accettare di andare in giro a presentare i miei libri per entrare sempre più in un mondo che mai avrei pensato di avvicinare: il mondo sanitario.

Proprio in uno dei miei tanti incontri, conferenze e seminari ho conosciuto, sono stata avvicinata, da quelle persone che sarebbero diventate, per quattro lunghi anni, i miei amici di “scopo”, di “pensiero”, di “intenti”. Persone che casualmente mi erano venute a sentire. Ma la vita è strana e riserva sempre delle sorprese. Questa volta sorprese bellissime per me. Ed è con quelle persone che è nato il gruppo di Medicina Narrativa di Pistoia. Meravigliose persone con lo stesso scopo in testa. Gruppo legato dallo stesso ideale: il benessere della Persona. Sia esso un malato che un operatore.

Un gruppo che non avrebbe parlato di Medicina Narrativa, perché di moda. Ma un gruppo che ci ha creduto, ha messo la faccia, ha stretto i denti, superato sorrisi di compatimento. Ha fuso insieme esperienze e capacità. Ha coraggiosamente voluto che fosse un gruppo eterogeneo, quando nessuno, allora e ben pochi anche ora, lo pensavano e lo fanno. Ossia un team di docenti che fosse non solo formato da professionisti della salute rivolti a parlare ad altri professionisti della salute sulle problematiche del paziente, ma professionisti della salute che insieme a dei pazienti avrebbero affrontato argomenti che giornalmente investono tutti: chi cura e chi dev’essere curato.

E io che sono un’entusiasta per natura ho accettato l’idea di mettermi ancora a nudo, di buttare giù qualche lacrima che avrebbe voluto uscire, che si è imposta l’idea di poter essere utile ed ho accettato. Mi è costata fatica. Non solo fisica. Non essere nella stessa città, doverla raggiungere riempiendo chilometri e chilometri e tempi di attesa lunghi e in solitaria non è stato

facile, ma dentro c’era la voglia di aiutare e di aiutarmi. Perché, se da un lato, per me, è sempre stato non facile ripercorrere momenti di profondo dolore, guardare in continuazione una situazione dove la morte è la tua più prossima amica, finire le giornate sfinita, gelata, turbata, dall’altro ho anche potuto sentire e fare crescere dentro di me un coraggio che non credevo di avere.

Ho guardato a me con un occhio più compassionevole, ma non di compassione. Ho accettato i miei limiti e mi sono data tempo. Ho avuto la forza di vivere una giornata all’interno di un hospice e, per una come me, uno 048, non è stata la cosa più facile di questo mondo. Ma ce l’ho fatta. Per capire e avere meno paura.

Ho nel cuore gli sguardi di molti operatori che hanno partecipato ai corsi. Le loro parole. Le loro domande. Il loro mettersi a nudo. Anche loro. Senza falsi pudori. Con semplicità.

Come fossero tante persone che gridavano la loro richiesta di aiuto. Di essere anche loro capiti. Esattamente come lo chiediamo sempre e a gran voce noi pazienti.

Io dico sempre una frase durante i miei più vari interventi. È una semplice domanda che qui, durante questi anni, avrebbe trovato anche la risposta.

Io chiedo sempre: “chi aiuta chi aiuta?”.

Ecco io credo che ciò che questo gruppo ha fatto, portato avanti, ha creduto, sia stato proprio questo. Ha dato quella risposta. L’ha fornita. Ha dato degli strumenti. Sarà bello sapere di più. Vedere e capire di più. Andare più a fondo. Vedere questo lavoro di squadra prendere un altro volo. Diventare ancora più grande. Perché la strada è quella giusta. È stata la più coraggiosa e la più umile. Ma sicuramente la più ricca di cuore.

Non voglio stare qui a dire altro. Voglio solo mettere in luce, sottolineare il valore che ha avuto per me esserci. Partecipare a questo progetto di grande intelligenza. Di grande attenzione. Di apertura. Di sguardo lungo.

Sono sicuramente più ricca. Certamente più serena e più agguerrita. Più conscia delle problematiche che stanno di qua e al di là della malattia. E anche più felice.

Ho incontrato persone meravigliose. Docenti e discenti. Sono nate amicizie.

È nata complicità. Quella che abbatte ogni resistenza e sospetto. Quella stessa che dovrebbe nascere ogni volta che una persona malata entra in un luogo di cura.

E se oggi mi si chiede che cosa faccio e chi sono, finalmente, nuovamente, rispondo che sono Lucia, una scrittrice, una pittrice, una con mille interessi e che fa anche teatro. Felice di quello che la vita le sta proponendo. E, in fondo, ma proprio in fondo, anche una paziente oncologica. Paziente che ha imparato, grazie anche a questo percorso diventato quasi una terapia di scambio di cause-effetto, ad accettare questa nuova, spesso terrificante e dolorosa, vita regalata.

Organizzare e promuovere la cultura della narrazione nei contesti di cura

di Marco Alaimo, infermiere, laurea magistrale in Psicologia Clinica

C’era una volta… un’idea, un sogno, dei colleghi e degli amici, anzi ci sono ancora… sono quelli che non smettono di seminare e, con pazienza, attendono i frutti e nel frattempo continuano a seminare e sperare! È il 14 Dicembre 2015, quando l’idea inizia a materializzarsi o, forse, molto prima. La voglia aveva trovato terreno fertile nella volontà di qualcuno di noi. Quel giorno, con Rossella e Marcello, andiamo a Firenze presso il centro di formazione “il Fuligno” e lì incontriamo la nostra Lucia e insieme seguiamo la conferenza della studiosa statunitense Rita Charon, fondatrice della Narrative Based Medicine, ovvero l’approccio narrativo alla cura che mette al centro il vissuto del paziente. Potrei ritenere quella data come l’inizio ufficiale della nostra avventura con la Medicina Narrativa e la volontà di introdurre, in Azienda e verso i colleghi, questa modalità di espressione narrativa delle emozioni, forte della convinzione che il lavoro di aiuto non è solo tecnica ed evidenze, ma anche stati d’animo e capacità introspettiva di espressione di quanto vissuto e spesso manifestato nelle diverse forme. Anche nella malattia stessa. Ancor prima di decidere con i colleghi di proporre un corso di Medicina Narrativa in Azienda ASL, avevo già intrapreso i primi intrecci di amicizia e collaborazione con Lucia Benetti (scrittrice e portatrice sana di speranza e forza di vita). Incontrai, infatti, Lucia qualche tempo prima ad un convegno di Bioetica a Pistoia. Dopo il suo intervento la contattai per chiedere un’intervista per un giornale con il quale collaboro. Fu subito “simpatia e gioia” a prima vista. Tra gennaio e febbraio 2016, iniziammo a buttare giù il progetto e il programma formativo insieme alla Direzione Infermieristica, cercando di creare un gruppo di professionisti pronti a mettersi in gioco. Quindi subentrarono altri colleghi Stefano, Giulia e Serena e si aggiunsero alcuni docenti esterni: Fiorenzo e Lucia (quella Lucia). Quest’ultimi, sarebbero stati in grado di trasmettere il loro vissuto di malattia con il loro carico esperienziale e narrativo. Devo ammettere che la forza del nostro progetto è sempre stata quella di non trasmettere solo nozioni teoriche, ma cercare di esprimere, anche attraverso i vissuti, la forza e l’importanza della narrazione nei contesti di cura sia per i curati che per i curanti. Il nostro obiettivo è stato quello di promuovere la cultura della narrazione del personale sanitario nel lavoro di cura attraverso lo sviluppo delle abilità relazionali, nell’accertamento dei bisogni di assistenza dei pazienti e la costituzione di un laboratorio permanente di medicina narrativa.

Infatti, “La Medicina Narrativa fortifica la pratica clinica con la competenza narrativa per riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia: aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, riflessioni, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi.” come asserisce R. Charon. I corsi si sono susseguiti e hanno preso sempre più importanza. Si sono formate molte persone e la nostra gioia più grande è sempre stata il ritorno entusiastico di coloro che avevano partecipato agli eventi. Si era sparsa la voce che il corso era interessante, “non annoiava”, trasmetteva ben più di “qualcosa” di tecnico e vedere i colleghi, il sabato mattina alle 8 arrivare felici, era, alle volte, commovente. Anche altri colleghi, dopo la formazione, sono loro stessi diventati parte integrante del corso, tra cui Alba, Kathya e Rosella. L’esperienza vissuta fino ad oggi (e che ritengo ancora non terminata), la rete di relazioni, la crescita personale e professionale che ho avuto da questo percorso, è veramente incalcolabile. La fatica è stata tanta, ma sempre ripagata da entusiasmo e speranza per il futuro. L’ascoltare e il vedere i colleghi interessati ad apprendere e crescere nella volontà di creare sistemi di narrazione ad ausilio delle persone assistite, ha permesso a me e tutto il gruppo di scoprire un “volto nuovo” della medicina. Una medicina multidisciplinare, integrata, che mette veramente il malato al centro. Una medicina di ascolto e cura della persona nella sua interezza, senza tralasciare l’unicità del vissuto anche dell’operatore. Il malato, con la sua narrazione, se ben organizzata, raccolta e analizzata, diventa, come molti studi hanno confermato, una fonte di informazioni e anamnesi clinica. Anzi, spesso, aiuta a inquadrare con maggiore efficacia la malattia e il suo posto nella storia clinica del paziente. Il tempo dedicato a questo progetto è stato tempo prezioso, tempo di ascolto e “rivoluzione” di pensieri circa la quantità di materiale informativo/narrativo utile a comprendere l’altro e se stessi.

Non è mai tardi

di Serena Biagini, infermiera

Medicina Narrativa: “Metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa. La narrazione è lo strumento fondamentale […] il fine è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato …” (Linee di indirizzo per l’utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico degenerative, Istituto Superiore di Sanità, 2014) Che definizione lunga! Che paroloni!!

Strano che, fra chi si occupa di salute, ci sia il bisogno, la necessità di riaffermare certi principi fra cui l’ ascolto mirato alla costruzione di un percorso di cura. Il prendersi cura della persona e non della malattia, fa davvero molto strano, eppure, durante i nostri incontri, questo bisogno è stato sempre presente e predominante.

Non ho una particolare specializzazione in medicina narrativa, ma sicuramente ho riscoperto quanto sia importante e necessario ascoltare con un orecchio diverso, per creare, così, qualcosa di utile per chi si è rivolto a me. Ho imparato ad avvicinarmi alle persone con la stessa curiosità che ha un bambino quando deve ascoltare una storia. Ho imparato a far tesoro del mio sapere che, unito alla storia di chi incontro, possa creare quell’alleanza terapeutica necessaria allo sviluppo di un percorso di cura condiviso.

Ho riscoperto quanto sia importante per il paziente (sì dico pazienti perché la parola utente o cliente mi fa pensare a chi paga la bolletta di un servizio), presentarsi.

Inoltre, spesso, noi operatori sanitari dei nostri pazienti abbiamo tante notizie cliniche ma non sappiamo niente o molto poco della loro anima, del loro vissuto, della loro esperienza di malattia, del loro concetto di salute. Perché? Forse perchè è più facile non sapere. È meno faticoso. E, a volte, anche meno doloroso. Ma sicuramente non produttivo ai fine terapeutici.

Ascoltare la storia di chi abbiamo davanti ci impone una presa di coscienza di quel che è il nostro lavoro. Opero da molti anni in un ambulatorio urologico ospedaliero. Per me gestire una procedura più o meno invasiva, è, ormai, diventato un automatismo. Quello che però dà un valore aggiunto al mio essere infermiera è la consapevolezza che, dietro al posizionamento di un catetere vescicale, ci sono io che percepisco le paure del mio paziente. So quale strategia ha adottato per accettare la sua nuova condizione. Conosco la sua storia, perché mi sono messa nella posizione di volerla ascoltare, per poter essere in grado di dare delle risposte migliori a lui e a chi, dopo di lui, entrerà nel mio ambulatorio.

È vero, io non faccio un lavoro in prima linea, di emergenza, come una mia cara collega ha affermato. “Io non salvo le vite”, ma queste vite che incontro le accompagno, spesso per mesi a volte per anni, lungo un percorso doloroso e tortuoso dove si sono trovano catapultati spesso senza alcuna spiegazione. Sarebbe facile, comodo e meno faticoso essere sterili e asettici come le procedure che andiamo a praticare. Ma non sarei l’infermiera che sono, che desidero, quella che nonostante le tante difficoltà che affronto quotidianamente, continua a credere che questo sia l’unico lavoro che voglio fare!

L’insoddisfazione che spesso è presente fra noi infermieri, appare proprio legata ad una perdita della capacità di ascolto della persona assistita che tanto ci dovrebbe caratterizzare sin dalla nascita della nostra professione. Qualcosa si è perso per strada. Non dovremmo aver bisogno di chiedere degli spazi, dei tempi di ascolto delle storie. Dovremmo semplicemente, riscoprire le motivazioni che ci hanno spinto ad essere ciò che siamo nella sua interezza e non solo nel suo tecnicismo.

È faticoso. È un continuo rimettersi in gioco e rimescolio di carte. Ma è solo così che sono riuscita ad uscire da quella insidiosissima strada che, se imboccata, mi avrebbe portata dritta dritta ad un

appiattimento ed un avvilimento del mio essere infermiera e della mia professione.

Quest’esperienza mi ha permesso non tanto di insegnare chissà quali teorie, ma al contrario, mi ha aiutato a tirar fuori il meglio di me e a confermare la convinzione che il senso profondo del lavoro di cura è quello basato sull’ascolto vero, sincero delle storie di malattia dei miei pazienti, che diventano storie di cura.

Un’esperienza indesiderata

di Fiorenzo Gori, insegnante, artista, paziente

Quando un’indesiderata esperienza incontra un sentiero dove la sofferenza che dovrai affrontare, quella che può travolgerti, entrerà nella tua vita e quindi sei costretto a viverla, devi individuare un nuovo percorso di vita da affrontare. Si potrebbe sostenere che il benessere risiede nell’accettazione della prova contro il nemico da combattere, ma la logica della battaglia è controproducente.

L’altra strada da percorrere è costruire atteggiamenti mentali in un processo curativo dove l’equilibrio svolge un ruolo fondamentale. La consapevolezza che la sofferenza imposta da una patologia deriva dal progressivo, inevitabile allontanamento dal soggetto dalla sua scontata normalità, richiede di individuare una nuova normalità dove andare a collocare il pensiero, l’azione di curiosità, fantasia e ottimismo, straordinarie forze che portano il soggetto su territori sconosciuti ed inconsueti spesso utili per trovare opportune soluzioni, modi di pensare di agire che sostengano la conoscenza e si oppongano al pessimismo che avvolge di nebbia il pensiero.

L’esperienza svolta a Pistoia, come docente esterno nel corso sulla Medicina Narrativa, mi ha permesso di presentare i tratti essenziali di questa indesiderata esperienza, la mia malattia, esponendo ai discenti i pensieri generatori di significati fondamentali e necessari per definire cosa era accaduto e cosa stesse accadendo nel mio corpo. Volendo sintetizzare il mio percorso di malattia si è articolato in tre direttrici: il rapporto con il medico, i rapporti con gli altri, il mio cammino di cura.

Una cura condivisa; occorre inserirsi in un sereno processo curativo dove l’equilibrio mentale svolge un ruolo fondamentale, come un’entità continua ed imprevedibile mutazione. Occorre maturare la nuova normalità impegnandosi in un’attività che fornisca stimoli rinnovati. Considerare la relazione medico-paziente come un fattore sempre rilevante per il successo di cura; affermare tra i due un rapporto cordiale e di fiducia utile per realizzare un percorso di cura condiviso, fermo restando distinto il reciproco ruolo. La cura condivisa è affermare e comprendere che la sofferenza, qualunque ne sia la causa, dipende dalla personalità di ciascuno e dal suo contesto di vita. Prima ci sono i valori di una persona , ci sono i sogni, le emozioni. Prima di tutto c’è la persona con il suo bisogno di futuro e soltanto dopo c’è la patologia.

I rapporti con gli altri: siamo esseri dispersi e diffusi nel tempo in cerca di armonia. Se vogliamo aver successo in questa ricerca dobbiamo imparare a riflettere e ad operare con un pensiero che sappia far interagire la visione statica, considerando il fatto come isolato dal contesto, a quella dinamica, che lo considera in interazione con l’ambiente e le altre organizzazioni che in esso si trovano. Per avere successo in questo compito dobbiamo affermare il valore della lentezza che stiamo trascurando. Bisogna riprenderci il tempo che la società ci ha preso, riaffermare il valore formativo del pensare e del valorizzare la sua bellezza. La rapidità talvolta è necessaria ma generalmente il pensiero più fertile è quello che dà spazio all’immaginazione, alla riflessione, alla lentezza (concetto di velociferità).

Il mio cammino di cura: è basato sulla curiosità, l’ ottimismo e la fantasia, straordinarie forze che portano il soggetto in territori sconosciuti, o inconsueti spesso utili per trovare opportune soluzioni. Occorre impegnarsi nella conquista di un modo di pensare gentile, cioè articolato, flessibile, aperto, sistemico. Il pensiero gentile non va confuso con la gentilezza della persona, è qualcosa di più grande è rispettoso dell’altrui opinione e ricerca l’armonia. Infine considerare l’importanza del viaggio, sia quello sul territorio sia che quello percorso nel mio profondo e di come questo sia più importante della meta. Ogni arrivo è il presupposto per una nuova partenza in una perenne continuità dove il non sentirsi mai arrivati consente di non essere travolti dalla consuetudine e dall’ordinario. Il corso Essere raccontare, esistere: la narrazione nel lavoro di cura, è stato un piacevole incontro sul mio cammino, che mi ha fatto bene, mi ha fatto curato.

I loro sguardi … il mio vuoto

di Giulia Melani, infermiera

Il tutto è iniziato dalla scelta dell’argomento della mia tesi di laurea triennale in Infermieristica: volevo qualcosa di unico, speciale che permettesse di rendere i pazienti i veri protagonisti.
Ricordo ancora quando andai a bussare alla porta dell’ambulatorio urologico dell’Ospedale di Pistoia, ricordo ancora di quanto bello e stranamente facile fu creare una straordinaria intesa con un medico e una infermiera di esperienza che si sono trovati a collaborare con una studentessa sognatrice di 20 anni…
I loro sguardi (dei malati) durante le interviste mi scorrono davanti agli occhi come se tutto fosse successo ieri… invece era il 2015. I pazienti parlavano davanti ad una sconosciuta di loro stessi, della loro malattia oncologica, delle loro famiglie, delle loro difficoltà, delle loro paure…mi hanno raccontato anche situazioni molto intime… ma tutti, anche quelli più scettici, erano accumunati da una cosa: il loro bisogno di raccontarsi.
Ecco come mi sono avvicinata alla Medicina Narrativa; e questa passione è diventata un vero e proprio stile di vita, oltre che professionale. Questo percorso mi ha permesso di conoscere tantissime persone e di far parte di una e vera “equipe”. Le persone che fanno parte del mio gruppo di medicina narrativa sono splendide, coraggiose e ognuna con una propria storia da dire e trasmettere. Tantissime sono state le emozioni emerse durante le varie edizioni di “Essere, Raccontare, Esistere”. La forza della Medicina Narrativa è questa: non solo fa bene nei nostri contesti di cura ma fa bene anche a chi la esercita. Tutti i giorni lavoro nel caos organizzativo dell’ospedale dove si parla di azienda, budget, cartelle informatizzate a volte dimenticandosi che ci sono i pazienti con tutto il loro contesto che li circonda. È una sfida far diventare la Medicina Narrativa una pratica clinico-assistenziale quotidiana, perché tutto ciò che non è oggettivabile e/o quantizzabile è poco preso in considerazione e spesso trascurato.
Tutti i giorni mi impegno invece a praticarla con semplici atteggiamenti e azioni che accompagnano anche i gesti più tecnici e questo fa la differenza. A volte schiacciati dal peso del lavoro di cura (e da tutta la parte burocratica che spesso lo condiziona) e dai problemi personali, abbiamo bisogno di attingere a questo approccio di cura basato sulla narrazione, che orienta e sostiene.
Succede spesso che non ho voglia di alzarmi la mattina, ma recarmi al lavoro dedicandomi ai miei pazienti e alle loro storie, mi leva quel senso di vuoto che ho e mi salva.

Un volo dirottato al decollo

di Kathya Lenzi, infermiera

Il tutto è iniziato con la mia partecipazione ad un un’edizione dell’evento formativo “Essere raccontare esistere: la narrazione nel lavoro di cura”, incuriosita da una materia a me sconosciuta e di cui ero un po’ scettica.

Frequentando questo corso però sono rimasta affascinata dall’argomento, dall’entusiasmo e dalla passione mostrata da tutti i relatori. Ma “l’amore” è esploso quando una docente esterna, Lucia, ha raccontato l’esperienza della sua malattia oncologica, di come è riuscita a superare ed affrontare i suoi dubbi, le sue paure, le sue incertezze. Ha parlato delle “sue infermiere” e del suo oncologo e di come le sono stati d’aiuto nell’affrontare la malattia e le terapie. Mi ha emozionata e mi ha coinvolto a tal punto che ho pianto. Lì ho compreso l’importanza di stare accanto alla persona malata.
Successivamente, sono entrata a far parte del gruppo di progettazione del corso. All’inizio mi sentivo un pesce fuor d’acqua, non mi sentivo all’altezza. Sono stata accolta a braccia aperte, mi hanno fatto sentire “gruppo”. Ho provato la voglia di impegnarmi per tornare ad un’assistenza centrata sulla persona e non sulla malattia, insieme al desiderio di diffondere ai colleghi e promuovere la cultura dell’ascolto e l’importanza della narrazione della persona assistita e dei professionisti della cura.
È stata un’esperienza intensa ma breve, tanto da paragonarla ad “un volo dirottato al decollo” .

Cerco quotidianamente di applicare questa pratica nel mio ambito lavorativo, e spesso noto che se concedi alle persone la possibilità di raccontarsi si ottiene una maggior compliance nella cura. Ho capito inoltre che il semplice gesto, la parola più banale, può essere qualcosa di straordinario per chi la riceve.
Mi auguro che il percorso formativo prosegua in modo che tutto il personale sanitario abbia la possibilità di riscoprire la bellezza e l’importanza di assistere le persone malate, valorizzandone il vissuto, perché il paziente oltre alle terapie ha bisogno di amore e di umanità.

Ascoltare

di Stefano Nerozzi, medico

Il mio incontro con la “Medicina Narrativa” è stato improvviso e casuale. Giulia, una laureanda in scienze infermieristiche, ha chiesto alcuni anni fa di poter collaborare per la sua tesi di laurea. La tesi avrebbe trattato il tema della Medicina Narrativa nei pazienti con tumore prostatico operati con chirurgia radicale e che avevano seguito presso il nostro ambulatorio un percorso uro-riabiliativo. Non avevo la minima idea di cosa significasse Medicina Narrativa e non immaginavo quale mondo di nozioni, di conoscenze e di letteratura non solo scientifica, stesse dietro a questo argomento. In maniera altrettanto causale partecipai ad un meeting per la presentazione di un farmaco dove un medico psicologo e psichiatra, il Professor Egidio Moja, tenne una splendida lezione sul come impostare una visita medica, sul modo di approcciarsi al paziente. Quello che mi colpì fu una cosa banalissima, la prima cosa che disse simulando la scena del paziente che entra in un ambulatorio medico: “… prima di tutto presentatevi al paziente e dite il vostro nome.” Era forse il più semplice degli insegnamenti, ma in un attimo ebbi la percezione di quante visite avessi fatto fino ad allora senza che la persona davanti a me, di cui io sapevo tutto, conoscesse neanche il mio nome. Probabilmente sull’onda emotiva di questa lezione, ma anche per le riflessioni che scaturirono dalla tesi di Giulia, mi sono ritrovato a far parte di un gruppo aziendale di Medicina Narrativa. Un gruppo speciale costituito da professionisti sanitari afferenti da varie discipline e diversi contesti (clinico, didattico, organizzativo), una scrittrice e un artista-insegnante disponibili a condividere la loro esperienza di malattia. Questo gruppo variegato ha portato avanti per diversi anni un corso aziendale di Medicina Narrativa che si è rivelata un’esperienza molto bella. A questi corsi hanno partecipato numerosi operatori sanitari (infermieri, ostetriche, operatori socio sanitari, psicologi e pochi medici) e sono emerse

nelle diverse edizioni emozioni, stati d’animo, aneddoti, racconti ed esperienze che ci hanno arricchito moltissimo. La sensazione era ogni volta che le persone coinvolte in quei corsi perdessero il ruolo di docenti o discenti, ma che ognuno riscoprisse quella motivazione “romantica” e sincera per la quale molti anni prima aveva scelto di affrontare una professione sanitaria, un lavoro che prevede il dolore, la malattia e la disperazione delle persone. Questo imput romantico molto spesso è purtroppo soffocato da molti fattori sia personali degli operatori, sia lavorativi nel senso più ampio del termine. Basti pensare alla quantità di tempo che oggi passiamo davanti al computer per ottemperare agli obblighi informatici aziendali rispetto alla qualità del tempo che trascorriamo con il malato. Talvolta penso alla Medicina Narrativa intesa come ascolto del vissuto del paziente e mi dico che probabilmente la stessa non dovrebbe neppure esistere perché l’ascolto del paziente, la condivisione del suo vissuto di malattia, l’attenzione alla sua percezione del dolore fisico e alla sua sofferenza profonda dovrebbero essere scontate in ogni operatore sanitario e dovrebbero guidarlo, insieme alla teoria, alla letteratura scientifica e alla medicina Basata sull’Evidenza (EBM), a condividere con il paziente la migliore strategia terapeutica. Perché al centro della cura non c’è solo il paziente, ma c’è il binomio paziente -operatore sanitario ( dove il concetto di operatore va allargato anche all’ambito organizzativo). Quando siamo davanti ad un paziente, cioè una persona che ha una malattia, quindi una persona nuova rispetto alla stessa persona prima dell’evento malattia, dobbiamo presentarci e soprattutto dobbiamo dire, non necessariamente con la voce: “Io ti ascolto”. Questo mi ha insegnato la Medicina Narrativa.

Tag: formazione, medical humanities, medicina narrativa

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Stai per lasciare il sito omni-web.

Ok, ho capito.