E’ un dato di fatto, certificato anche da tanti studi osservazionali: l’empatia diminuisce nel corso degli studi accademici dei professionisti sanitari. Ma sulle cause e i possibili rimedi sappiamo ancora troppo poco, scrive Sergio Ardis – docente a contratto di “Comunicazione etica in medicina” presso l’Università di Pisa – sul sito della Società Italiana di Medicina Narrativa.
Il nostro sistema di formazione universitaria trova la sua massima espressione di valutazione nell’esame. Molto spesso l’esame universitario è costruito in modo da assicurare maggior successo agli studenti che sanno ripetere meglio quanto detto dal docente, magari dopo aver “sbobinato” verbatim le lezioni, o dopo aver studiato le dispense del professore o, nei casi più fortunati, dopo aver letto quanto scritto nei libri pubblicati dal professore. Personalmente in aula preferisco ragionare con gli studenti e nel farlo spero che un giorno siano medici o infermieri migliori di noi, migliori di me. Sono certo che pretendere che mi ripetano in modo acritico quello dico non li renderà migliori.
In Italia, a differenza del mondo anglosassone e non solo, ci preoccupiamo poco di cosa accade agli studenti durante gli studi. Non misuriamo per esempio il loro benessere soggettivo, il loro ottimismo, la loro resilienza, né se per esempio sono in burn out. Non ci chiediamo come varia l’empatia degli studenti di medicina e delle altre professioni sanitarie che iniziano il loro percorso accademico nei nostri atenei.
Quando si parla di comunicazione tra paziente e sanitario la letteratura non è sconfinata tuttavia su questo argomento nell’ultimo ventennio sono state pubblicate varie evidenze.
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