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Ecco gli effetti dell’empatia nel cervello

15 Febbraio 2019 - di Annalisa Bonfranceschi

Quando ci rivolgiamo al medico portiamo con noi bisogni non detti. Come la necessità di essere capiti e di capire (che cosa ho, cosa mi aspetta in futuro?), di agire (cosa posso fare?), di essere ascoltati e considerati dal medico come persone e non solo come patologie. Bisogni impliciti la cui soddisfazione però ha un peso sugli esiti del suo percorso di cura. Così suggerisce uno studio sperimentale promosso dalla Fondazione Quarta Onlus e dall’Università di Udine, che tramite tecniche di neuroimaging studiato gli effetti dell’empatia, osservando cosa accade nel cervello di chi riceve aiuto e si sente considerato, come come dovrebbe accadere nel rapporto con il proprio medico. La ricerca Fiore (Functional imaging of reinforcement effects) prende spunto dal progetto Ippocrates avviato dalla stessa Fondazione Quarta Onlus qualche anno fa insieme all’Istituto Nazionale Tumori di Milano e ha come obiettivo fornire evidenze scientifiche e strumenti per potenziare le capacità relazionali dei medici nei confronti dei pazienti e dei loro familiari. I suoi risultati sono stati presentati il 12 febbraio nel corso di un convegno che si è svolto nella città lombarda.

Una relazione complessa

“La relazione medico-paziente ha aspetti molto specifici: è limitata, asimmetrica, complementare, ritualizzata, con una contrattualità implicita e una centralità dell’obiettivo”,  racconta Sambataro, del Dipartimento di Medicina dell’università, “pertanto, è difficile usarla come modello psicologico generale per lo studio dei circuiti sottostanti. Per osservare a livello neurale la risposta al soddisfacimento (o meno) di due bisogni relazionali – quelli di empatia e di attenzione –  escludendone altri aspetti specificatamente medici, i ricercatori dell’Università di Udine a capo del progetto – Fabio Sambataro e Daniele Olivo – hanno quindi svolto lo studio su una trentina di volontari, non pazienti, monitorati tramite risonanza magnetica mentre svolgevano alcuni compiti, in modo da identificare le aree del cervello che si attivavano nelle diverse situazioni.

Gli effetti dell’empatia e dell’attenzione

“Abbiamo fatto in modo che i volontari si calassero nella parte dei pazienti, portandoli a immedesimarsi in situazioni in cui avrebbero potuto o meno sperimentare empatia e ricevere un aiuto concreto”, racconta Sambataro.  L’imput era fornito da un testo scritto o una vignetta. Per la condizione di empatia, per esempio, venivano mostrate due persone in coda per salire sul treno: quello davanti poteva ignorare il passeggero alle sue spalle oppure offrirgli aiuto. La condizione di attenzione era invece ricreata con la scena di un colloquio di lavoro, con l’esaminatore che mostrava di apprezzava o meno il curriculum del candidato. I volontari dovevano immedesimarsi nella persona che riceveva aiuto o apprezzamento.  “Il confronto dei diversi stili relazionali in uno stesso paziente”, spiega il ricercatore, “ci avrebbe permesso di osservare se e come rispondeva il cervello di fronte a comportamenti diversi da parte dell’altro interlocutore, un potenziale medico”. In mancanza di un riscontro comportamentale diretto – i partecipanti dovevano solo provare a immedesimarsi –  al volontario veniva sottoposto un questionario per rilevare come si sentisse dopo essersi calato in una determinata situazione.

La firma nella corteccia

“Abbiamo scoperto che in situazioni cosiddette di influenzamento, come quelle in cui la persona sul treno si volta ad aiutare il passeggero, si attivano alcune aree del cervello chiamate in causa dalla teoria della mente“, spiega Sambataro. Aree come la corteccia medio-prefrontale e temporale che entrano in campo nella capacità di capire cosa si cela dietro le azioni e i comportamenti dell’altro: il paziente cerca di di capire pensieri e comportamenti del medico, entrando in risonanza cognitivo-emotiva”. Ma la valorizzazione della propria esperienza (per esempio, nel colloquio di lavoro), ha rivelato qualcosa di inatteso per i ricercatori: “In presenza di apprezzamento e gratificazione quello che osservavamo era un aumento dell’attività cerebrale solo nell’area della corteccia visiva primaria e secondaria, mentre ci saremmo attesi anche l’attivazione del sistema della ricompensa”. Tuttavia, osserva Sambataro, “non è escluso che sia quest’ultimo,  in realtà, ad attivare la corteccia visiva, come suggerito anche dalle risposte di valutazione delle situazioni”.

Più umani, più sani

Anche se limitati, i risultati della ricerca Fiore mostrano quanto l’attenzione e l’empatia da parte del medico possano influenzare il paziente e la sua esperienza di cura. “L’empatia, la ricompensa sociale, l’attenzione, sono tutti aspetti che entrano nel dialogo tra paziente e medico e quest’ultimo dovrebbe tenerle in grande considerazione, non solo a livello teorico. Ma sappiamo che a volte i clinici tendono a sovrastimare la loro comprensione nei confronti dei pazienti, osserva il ricercatore. “Esiste inoltre la concreta ipotesi che mostrarsi più comprensibili e attenti nei confronti del paziente faccia bene anche al medico, abbassando il rischio di burnout”.

Tag: empatia, neuroscienze

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