Secondo la teoria dell’automedicazione di Edward Kanthzian, l’uso di sostanze è talora uno strumento per mitigare un sintomo, un vissuto penoso che non si riesce a gestire o risolvere in altro modo. Ma il racconto dell’alcolismo che Fëdor Dostoevskij propone in Delitto e castigo attraverso le parole di Marmelàdov suggerisce anche un’altra lettura, solo apparentemente in contraddizione con l’idea dell’automedicazione.
La confessione di Marmelàdov
Durante una delle tormentose e vane peregrinazioni che precedono la messa in atto del duplice assassinio, Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, il giovane protagonista di Delitto e castigo, entra in una lurida bettola per sedersi e bere una birra fredda. Seduto in un angolo scuro e sporco, accanto a un tavolino appiccicoso, Raskòl’nikov si guarda intorno. Poca gente nel locale, il suo sguardo si posa su un uomo in disparte che dà l’idea di essere un funzionario in pensione. È un uomo oltre la cinquantina, col volto deformato dall’alcol, giallo, quasi verdastro. Ha palpebre gonfie, occhi lucidi e arrossati in cui lampeggiano, al tempo stesso, barlumi di intelligenza e di follia. L’uomo inizia a fissare Raskòl’nikov, poi barcollando gli si avvicina e avvia la conversazione.

Si chiama Semën Zacharovič Marmelàdov e, racconta, ha più volte perso il lavoro per la sua continua ubriachezza. Per mantenere la famiglia, quindi, ha avviato la figlia alla prostituzione, continuando a dilapidare il patrimonio della moglie. la quale, ammalatasi, si è ridotta a far da sguattera a tutta la famiglia, a lavargli quotidianamente i panni mentre lui smaltisce le sbornie a letto, divorato dalla pena e in fermo ascolto dei suoi sensi di colpa. Sì, perché, paradossalmente, Marmelàdov beve per punirsi, per sentire meglio il dolore dell’infamia, della sua irredimibile inettitudine, dell’abiezione da cui non riesce a sollevarsi. E’ proprio lui a dirlo:
«Forse che non le sento [tutte queste cose]? E quanto più bevo, tanto più le sento. Proprio per questo bevo, perché in questo mio bere cerco compassione e sentimento… Bevo perché voglio soffrire il doppio! […] Perché aver pietà, tu dici? Sì! Perché aver pietà di me?! Crocifiggermi bisogna, inchiodarmi sulla croce, altro che aver pietà di me! Ma crocifiggimi, giudice, crocifiggimi, e dopo avermi crocifisso abbi pietà di me! E allora io stesso verrò da te per essere messo in croce, poiché non di letizia ho sete, ma di lacrime e dolore!… Credi tu, oste, che questo tuo mezzo litro mi si sia tramutato in dolcezza? Dolore, dolore cercavo in fondo a esso, lacrime e dolore, e l’ho assaporato, l’ho avuto».
Marmelàdov beve per sentire meglio, per vivere più intensamente la vergogna e la colpa. Non beve per annegare la responsabilità ma per sommergersi nel rimorso, per coincidere col rimorso. Marmelàdov beve perché sente che è ormai l’unico modo a lui concesso per riscattare, vivendolo, il male che causa a se stesso e alle persone care. Perché solo bevendo arriva a sentire come vorrebbe. Soltanto bevendo di più riesce a vedere col grado di acutezza che ritiene necessario l’enormità della sua colpa.
Delitto e castigo nell’alcol
La storia di Marmelàdov ricorda molte testimonianze di persone che hanno una dipendenza e dice molto sul modo in cui evolve questa condizione. Bere per sentire più acutamente la colpa, il rimorso e la vergogna e così tentare di scontare la responsabilità significa alimentare il ciclo della dipendenza, dannarsi con la stessa sostanza in cui si cerca invece l’espiazione.
Sapere che la dipendenza è una malattia non “deresponsabilizza” in questo senso: si continua a sentire fortemente la responsabilità dei propri comportamenti, anzi più della responsabilità, la colpa, la propria colpa. E talora si cerca, come Marmelàdov, di amplificare il senso di colpa attraverso la percezione, il vissuto e gli stati di coscienza indotti dalle sostanze. Ma il senso di colpa alimenta lo stress e favorisce il ricorso alle sostanze. Il ricorso alle sostanze per vivere la vergogna e manifestare il disprezzo di sé mantiene questo circolo perverso.
Tutto questo ci fa capire come, in una prospettiva terapeutica, bisognerebbe saper accogliere il bisogno del senso di responsabilità dei soggetti con dipendenza. I sentimenti di autonomia e responsabilità sono condizioni fondamentali per ogni percorso di recupero. Ma bisognerebbe esprimere e manifestare l’idea che esiste una responsabilità senza biasimo e stigmatizzazione.
La responsabilità, la storia e il suo racconto
È vero che una persona ha sempre un grado di responsabilità per ciò che diventa. Ma ciò che diventa dipende anche dalle possibilità che quella persona aveva, dall’ambiente in cui è cresciuto, dalle persone che la vita gli ha fatto incontrare, da ciò che il caso gli ha fatto vivere. Una persona è anche la sua storia. Forse, allora, nel racconto e nell’ascolto della sua storia un individuo può capire le sue responsabilità senza soccombere ai suoi sensi di colpa e alla vergogna. Può far capire agli altri le sue responsabilità senza suscitare disprezzo e riprovazione. Coltivare le storie, usare lo strumento dei racconti e della scrittura delle storie, delle narrazioni personali aiuta ad evitare che si cerchino nella sostanza i contraddittori sentimenti dell’anestesia e del senso di colpa più vivo.
Pietà per se stessi
Chi ha letto Delitto e castigo capisce forse meglio ciò che intendo. Col racconto della sua storia, comunque abietta, ma come la nostra piena di umani inciampi, confusione e sfortune, Marmelàdov si guadagna la nostra attenzione, il nostro ascolto. In questo modo, forse, acquista la sua stessa comprensione, inizia un cammino di autocompassione. Fosse un personaggio reale, Marmelàdov si guadagnerebbe anche il nostro aiuto, come succede nel romanzo a Raskòl’nikov. A me sembra infatti impossibile non provare empatia, vicinanza, compassione e premura per una persona che ci racconta la storia del suo dolore, perché il dolore che ci racconta resta sempre, pur in forme diverse, il nostro stesso male.
Questo articolo è tratto dal blog Psicoattivo, dove è disponibile la versione integrale con note.
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