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Dipendenza da alcol, la cura nasce dalla storia del paziente

22 Dicembre 2017 - di Stefano Canali

Come, quando e perché un alcolista beve? Rispondere non è facile, ma è fondamentale per calibrare con maggior efficacia la riabilitazione dalla dipendenza e la prevenzione delle ricadute. A provarci di recente è stato un team di ricercatori della Mayo Clinic e dell’Università di Amsterdam, con uno studio che ha indagato l’influenza di alcune fattori come umore, sesso e presenza di altre malattie psichiatriche sui consumi di alcol di persone con diagnosi di alcolismo. I risultati, presentati a Parigi nel corso dell’ultimo congresso annuale dell’European College of Neuropsychopharmacology, svelano una situazione complessa, e alcuni specifici fattori di rischio che possono influenzare gli schemi di consumo e le quantità di sostanze alcoliche ingerite.

“Il nostro lavoro conferma ancora una volta che l’alcolismo non può essere considerato un problema monodimensionale”, spiega il coordinatore della ricerca Victor Karpyak. “Perché si beve? La risposta più corretta è che non esiste una ragione univoca, e questo dovrebbe avere delle ripercussioni su come diagnostichiamo e trattiamo l’alcolismo”.

La metodologia della ricerca

Nel loro studio i ricercatori della Mayo Clic hanno analizzato per 90 giorni il consumo di alcolici da parte di 287 uomini e 156 donne con una diagnosi di dipendenza dall’alcol. Nello stesso periodo è stata rilevata la propensione al bere durante stati affettivi positivi, negativi e durante le tentazioni, situazioni cioè che normalmente possono innescare il desiderio di bere per un alcolista, ad esempio passare vicino al bar dove comunemente beve, oppure durate un pasto, o in una situazione sociale tipicamente accompagnata dal bere, oppure ancora un luogo o un orario abitualmente associati al bere.

I risultati sono stati quindi incrociati con una valutazione diagnostica per la presenza di altri disturbi psichiatrici, come la depressione maggiore e il disturbo d’ansia (utilizzando il metodo Prism), e una dettagliata analisi dello stato emozionale dei partecipanti in corrispondenza con il consumo di alcolici. In questo modo sono riusciti a mappare alcune specifiche differenze nelle abitudini dei partecipanti e nelle correlazioni tra il bere, gli stati emotivi e i disturbi dell’umore eventualmente presenti.

Il bere e la regolazione degli stati emotivi

Gli uomini ad esempio hanno dimostrato un consumo quotidiano superiore a quello delle donne, ma nessuna differenza per quanto riguarda il numero complessivo di giorni in cui bevono alcolici. Per entrambi i sessi invece l’assunzione di alcolici è risultata fortemente legata al vissuto emotivo ma in modo assai individuale. Alcune persone tenderebbero a bere in presenza di emozioni negative, per attenuarle, altre per amplificare sensazioni piacevoli e stati affettivi positivi. La presenza di sintomi di disturbi dell’umore, depressione e soprattutto ansia, sembrano associati con più alti livelli di consumo. L’uso di altre sostanze psicoattive non sembra invece avere un impatto significativo sui livelli del bere. Mentre nei soli uomini la depressione maggiore avrebbe un impatto peculiare, diminuendo le giornate in cui vengono assunte grandi quantità di alcol, senza influenzare però i consumi giornalieri.

Le ragioni nella storia del paziente e quelle del momento

Tutto considerato, i risultati delineerebbero una situazione complessa e non facile da spiegare. Le ragioni per cui gli alcolisti bevono dipendono dal loro specifico temperamento, dalla loro storia, dall’umore del momento e dalle immediate circostanze materiali. Non esiste una singola ragione, una causa univoca o prevalente. Dunque non può esistere un trattamento che sia efficace per tutti. E non può nemmeno esistere un trattamento che possa valere sempre e allo stesso modo per tutti i periodi della vita di una singola persona. Questa ricerca e altre già realizzate indicano la necessità di raffinare il processo diagnostico tenendo soprattutto conto della tipologia dell’eventuale disturbo dell’umore presente.

A dispetto delle complessità e delle difficoltà teoriche osservate dalla ricerca, dunque, i dati emersi confermano la necessità di approcci terapeutici fortemente individualizzati, tarati non solo sulla singolarità della sua persona. La calibrazione del trattamento, infatti, deve essere ancora più fine: sintonizzata sulla condizione del paziente nel momento dato e sugli aspetti della dipendenza che si cerca di colpire, che sia il desiderio dell’alcol, oppure il legame tra stimoli innesco e bere, oppure ancora le memorie e le sequenze motorie che possono rievocare o dar corso alla ricerca e all’effettivo consumo di alcol.

Risultati interessanti insomma, che necessitano però di ulteriori ricerche per una conferma definitiva. “Non si può escludere che questi dati dipendano da fattori confondenti residui – commenta Wim van den Brink, psichiatra esperto di dipendenze dell’Università di Amsterdam che ha partecipato alla ricerca – gli alcolisti con una depressione maggiore potrebbero ad esempio essere più spesso pazienti che sviluppano una dipendenza dall’alcol più tardi nella vita, e in questi casi si osserva spesso un modello di consumo regolare, con meno giornate di forti bevute o binge drinking. Per superare questi limiti serviranno ulteriori studi prospettici”.

Simone Valesini e Stefano Canali

 Riferimenti

EUROPEAN COLLEGE OF NEUROPSYCHOPHARMACOLOGY

Questo articolo è tratto dal blog Psicoattivo.

Tag: comunicazione medico-paziente, dipendenze, personalizzazione delle cure

Info Stefano Canali

Ricercatore dell’Area Neuroscienze e del Laboratorio Interdisciplinare della Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati, dove dirige la Scuola di Neuroetica. E’ presidente del Comitato Scientifico della Società Italiana Tossicodipendenze e redattore della rivista Medicina delle Tossicodipendenze – Italian Journal of Addiction. E’ autore di circa un centinaio di pubblicazioni sul tema delle sostanze e delle dipendenze e del blog Psicoattivo.

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