Nel provare a descrivere ciò che è avvenuto, dal punto di vista della narrazione e del flusso delle informazioni che ci hanno investito dalla prima comparsa della parola “coronavirus” sui giornali e nei notiziari radio e televisivi e sul web, non intendo nel modo più assoluto fare affermazioni su “ciò che si sarebbe dovuto fare”. Nulla come una situazione di emergenza rende chiaro – a chi lo vuole capire – che il “senno di poi” non è lo strumento adatto per riflettere su ciò che accade, specie se si parla di informazione. Tutto cambia in continuazione, cambiano i dati disponibili e il modo in cui vengono interpretati e diffusi, cambiano le condizioni cognitive ed emotive di chi riceve quei dati e a sua volta li trasforma in indicazioni di comportamento. Perché in questo caso l’esigenza di capire “cosa sta succedendo” e “cosa bisogna fare” diventa un accelerante potente e pericoloso nella ricerca, diffusione, modificazione volontaria o involontaria delle informazioni, dando origine a quella che l’Oms ha definito infodemia. L’intento di questo scritto è piuttosto quello di focalizzare su uno dei fattori critici della comunicazione pubblica: la possibilità di dare informazioni e indicazioni di comportamento credibili e affidabili in una situazione di incertezza.
L’incertezza e la “creazione” delle informazioni
Un evento non compare all’improvviso munito di tutti i dati che lo spiegano e permettono previsioni sulla sua evoluzione: questo determina una inevitabile fase di incertezza che riguarda sia l’interpretazione dei fatti/avvenimenti sia le correlazioni fra essi. L’incertezza nasce essenzialmente dalla incompletezza dei dati, ma nel caso di una situazione emergente è dovuta soprattutto alla velocità con cui si modificano gli eventi e i dati in tempi brevissimi. E’ un periodo “fuzzy”1, in cui diventa difficile definire con certezza cosa è “sicuramente” vero, cosa è “un po’ vero (forse o provvisoriamente)” e cosa non è vero del tutto. Ed è con questa incertezza che gli attori principali della catena informativa devono fare i conti nel dare informazioni su ciò che accade e indicazioni di comportamento coerenti con quelle informazioni.
Quali informazioni dare, e come?
Una ricerca recente, a cui ha collaborato anche la BBC, suggerisce che, diversamente da quanto pensano politici e giornalisti, comunicare informazioni e dati numerici segnalando con trasparenza che si tratta di dati non definitivi e quindi ancora non certi “mantiene la fiducia del pubblico nelle informazioni e nella sua fonte”. In pratica, meglio segnalare “su questo stiamo ancora lavorando, al momento i dati sono questi ma non sono definitivi” che ostentare certezze che verranno poi smentite.
Dovremmo dire che, invece, a partire da dicembre 2019 si è verificata non solo una ondata mondiale di fake news ma, purtroppo, nel nostro Paese anche una vera epidemia di informazioni “certe” (sulle modalità di trasmissione del virus, sui rischi dei contatti fra persone, sulla pericolosità della malattia) seguite a breve distanza da altre informazioni “certe” ma, se non propriamente almeno apparentemente, in contraddizione con le precedenti.
Le conseguenze di ciò le abbiamo sotto gli occhi: inizialmente molti hanno tardato a rendersi conto della situazione, e ad adottare i comportamenti consigliati, poi quando la situazione è esplosa, con la notizia del paziente 1 di Codogno, si è scatenato l’allarme sociale e di pari passo il dilagare di informazioni false, manipolate, fuorvianti: il Centro di monitoraggio appositamente istituito per segnalare le false notizie sul Coronavirus nel mondo ha individuato a oggi 17 siti, soltanto in Italia, che hanno pubblicato e diffuso notizie false nelle ultime settimane. Il numero non è definitivo. In costante aggiornamento anche la la piattaforma realizzata dal laboratorio CoMuNe Lab della Fondazione Fbk insieme a all’Università Iulm di Milano e al Berkman Center for Internet & Society, centro di ricerca dell’Università di Harvard che mette in relazione l’evoluzione dell’epidemia del Sars-CoV-2 con la diffusione delle notizie da fonti attendibili e inattendibili.
Ma come si è generata l’incertezza dei cittadini su “cosa bisogna fare” per proteggersi dal contagio? Le prime indicazioni di comportamento sono state date ( per rassicurare? Per non creare panico?) con una modalità che viene definita “fuzzy”2: sul piano linguistico la formulazione risulta troppo vaga per permettere a chi riceve quella indicazione di trasformarla nell’indicazione chiara e precisa del comportamento “giusto” da adottare. Tipica l’indicazione di “rimandare i viaggi non necessari” (Ministero della Sanità, 21 gennaio 2020), che ha lasciato a ciascun cittadino il compito di decidere quale dei suoi viaggi doveva considerare “non necessario”
Purtroppo la modalità informativa fuzzy ha caratterizzato tutto l’evolversi delle comunicazioni nella vicenda coronavirus, rendendo sempre più difficile alle persone capire e decidere quali sono i comportamenti da adottare per la sicurezza propria e degli altri. Emblematico è il caso delle mascherine: servono, non servono, quale tipo? Ancora manca una risposta univoca.
Dalle informazioni alle decisioni
E’ importante riflettere sulla differenza fra informazione e decisioni sul “cosa fare”. Si tratta di due aspetti di livello logico diverso che si alternano in ogni situazione complessa, con una velocità variabile determinata dall’urgenza e da fattori emotivi come l’ansia e la paura.
Chi ha il compito ufficiale, istituzionale, di dare informazioni e indicazioni di comportamento ai cittadini si trova di fronte a tre tipi diversi di decisioni:
- Cosa fare per fronteggiare una situazione ancora incerta (decisioni tecniche)
- Cosa dire alla popolazione (decisioni sulle informazioni da diffondere).
- Cosa chiedere di fare alla popolazione (decisioni sui comportamenti da proporre/imporre).
Lo farà basandosi a sua volta sulle informazioni e sulle indicazioni che ha ricevuto da fonti ufficiali: dati, statistiche, proiezioni, decreti ecc.
E qui usciamo dal campo della pura razionalità per entrare in quello più vago e meno prevedibile dei meccanismi decisionali: perché in quella fase entrano in azione i cosiddetti bias cognitivi che si attivano nel momento in cui le informazioni vengono interpretate da chi le ha ricevute, e trasformate nelle decisioni di cui si è detto sopra: cosa fare, cosa dire, cosa chiedere di fare.
Facciamo un esempio. Siamo a febbraio. Le uniche decisioni restrittive riguardano l’arrivo di cittadini cinesi in Italia. C’è anche un dato “oggettivo” che lo conferma: ci sono solo due contagiati in Italia, e sono cinesi. Il pericolo è ancora la Cina, con tutte le conseguenze a livello di sentimenti e comportamenti, di diffidenza o apertamente ostili, nei confronti di persone e attività cinesi in Italia.
Ma le cose cambiano rapidamente: il 25 febbraio il Commissario per l’emergenza della Protezione civile Angelo Borrelli comunica i dati ufficiali sui casi rilevati nel paese: sono 283. Di questi, 7 persone sono decedute e 1 persona è guarita. In Lombardia i casi sono sono 212, di cui 21 in Terapia Intensiva, 77 ricoverati, gli altri in isolamento. Nettamente inferiori i casi nelle altre Regioni.
Questi sono i dati, i numeri. Come trasformarli in decisioni, scelta delle informazioni da dare alla popolazione, indicazioni di comportamento? E soprattutto a chi tocca farlo?
In quella fase, le indicazioni ufficiali riguardano essenzialmente le misure di igiene – lavaggio delle mani, starnutire nella piega del gomito… Ancora non si parla di distanze di sicurezza. O forse sì?
Il 26 febbraio una ordinanza regionale a firma del governatore della Lombardia in accordo con il ministro della Salute impone restrizioni anche nelle aperture dei mercati: saranno sospesi obbligatoriamente il sabato e la domenica. Si lascia ai sindaci la scelta se imporre misure ancora più restrittive.
Negli stessi giorni, fra il 23 e il 26 febbraio, viene prima emanata poi revocata l’ordinanza di chiusura dei bar alle 18 (ora dell’aperitivo!)
Siamo in piena zona fuzzy.
Immaginiamo il sindaco di una qualsiasi città o cittadina della Lombardia. Lui e i suoi assessori hanno a disposizione l’ordinanza della Regione e una serie di dati, proiezioni, numeri, statistiche ufficiali che riguardano la diffusione del virus, fra cui l’evidente e inquietante differenza fra il numero di contagi in Lombardia rispetto a quello di altre Regioni.
Quello che il sindaco si chiede è: e adesso cosa faccio? Su questa decisione influiranno elementi che non fanno parte del percorso decisionale razionale (ammesso che esista): i bias “filtreranno” sia il contenuto dell’ordinanza sia i dati “oggettivi” in un modo che non è, e non può essere, puramente razionale.
Interferenze e bias cognitivi
Il sindaco di cui parliamo è solo un esempio. Chiunque si trovi nella condizione di dover trasformare informazioni e indicazioni ricevute in decisioni e azioni è soggetto a interferenze non razionali e non consapevoli. Per cominciare: gli obiettivi della decisione
Nella mente del sindaco (è solo un esempio) si presentano obiettivi divergenti: non creare panico; non mettere a rischio i cittadini; non creare difficoltà alle persone, in particolare agli anziani per i quali quel mercato è da anni il solo punto di approvvigionamento fidato; non sottovalutare; non esagerare. Anche perché sa che qualsiasi decisione prenda, con il “senno di poi” gli verrà rinfacciata, e lui ha anche un altro obiettivo: non perdere il favore dei suoi elettori (attenzione: non è un obiettivo ignobile, chi fa politica porta avanti idee a cui lui e i suoi elettori credono e tengono, e restare al proprio posto fa parte del suo impegno personale e pubblico).
Potremmo dire che, a questo punto, il sindaco dovrebbe poter contare su un referente superiore a cui rimettersi per le sue decisioni. Ma anche per il referente più elevato – presidente della regione, assessore alla sanità, ministro, presidente della repubblica – si presentano, si sono già presentati e si presenteranno gli stessi problemi decisionali: obiettivi divergenti (non creare panico; non sottovalutare; rassicurare; mettere in guardia…) e la trasformazione inconsapevole dei dati e delle informazioni disponibili: i bias cognitivi.
Vediamone solo alcuni, che possono avere influito sull’uso-trasformazione delle informazioni che i decisori hanno ricevuto:
– L’euristica della disponibilità è un meccanismo che si attiva per ciascuno di noi quando si tratta di valutare i rischi delle decisioni. I numeri, i dati, le statistiche che sembrerebbero gli elementi “sicuri” su cui basare le decisioni in realtà vengono superati in velocità dai dati che abbiamo “in memoria”. In questo caso può avere pesato, ad esempio, la disponibilità del ricordo della SARS che suscitò allarme fra il 2002-2003, ma si diffuse in modo estremamente contenuto al di fuori della Cina. L’assimilazione del COVID alla SARS può essere alla base di alcune comunicazioni rassicuranti diffuse anche da fonti ufficiali del tipo “si tratta di una comune influenza”, “il rischio è estremamente basso” e così via.
– Il bias di conferma + il bias di gruppo: nell’orientarsi verso una decisione in una situazione di incertezza si tende a basarsi su decisioni già prese da altri (bias di conferma). Se poi gli altri fanno parte di un gruppo in cui ci riconosciamo (i sindaci; i rappresentanti del mio partito ecc.) scatta anche il bias di gruppo, che porta a sopravvalutare le capacità decisionali dei membri e a sottolinearne la validità ( se lo hanno fatto a Milano…).
– Il bias dello status quo + Il bias di omissione: entrambi sono legati alla “avversione alla perdita” che condiziona la maggior parte delle nostre decisioni: ciò che perdiamo o rischiamo di perdere acquista un peso assai maggiore di ciò che potremmo – forse – guadagnare. In questo senso, evitare finché è possibile un cambiamento di abitudini, di programmi, di priorità… di stato emotivo della popolazione (bias dello status quo) diventa prioritario e modifica l’interpretazione dei dati e delle statistiche. Se si aggiunge la prevalenza inconsapevole del “non agire” rispetto all’agire (bias di omissione) i ritardi nell’assumere decisioni sia a livello locale che nazionale diventano non giustificabili ma comprensibili.
Il dilemma del male minore
Nel decidere cosa fare, cosa dire e cosa chiedere/imporre di fare compaiono come abbiamo visto obiettivi divergenti: non cambiare nulla/gestire il cambiamento, ma soprattutto rassicurare/responsabilizzare.
Sul piano relazionale questi ultimi due obiettivi divergono in modo clamoroso: rassicurare, minimizzare, evitare la paura sono modalità che delineano una relazione infantilizzante, protettiva forse ma assolutamente non autonomizzante. Responsabilizzare richiede una modalità relazionale che presuppone nell’altro un adulto, a cui si deve chiedere quello che deve essere chiesto, senza sconti e senza “indoramenti” di pillole.
Raggiungere entrambi gli obiettivi – responsabilizzare i cittadini ed evitare che la preoccupazione della popolazione cresca- è praticamente impossibile. Nel tentativo di raggiungerli si rischiano scelte comunicative dagli effetti imprevedibili. Ad esempio la rassicurazione parziale: la situazione non sta peggiorando; il virus colpisce prevalentemente le persone anziane; basta lavarsi le mani; meglio non andare in locali affollati; meglio evitare gli spostamenti non necessari. Sono parole che abbiamo sentito da febbraio fino al decreto ministeriale dell’8 marzo.
Perché le conseguenze sono imprevedibili? Perché di fronte al singolo cittadino e ai decisori intermedi – proprietari di locali, organizzatori di eventi, responsabili di attività varie, produttive, ludiche, sportive – si apre un’area di incertezza eccessivamente ampia. In quell’area ciascuno si muove con la propria personale attitudine nei confronti del rischio, dell’obbedienza alle regole, della percezione di responsabilità. Ed ecco le serate aperitivo ai Navigli (tanto siamo giovani), la festa di Carnevale nel Lazio, il locale bowling aperto tutto il giorno, con i complimenti della stampa locale, per dare un po’ di divertimento ai ragazzi a casa da scuola… E le cene fra amici in tutta Italia, i matrimoni che non si possono rinviare ecc.
Il cittadino vede, sente raccontare, coglie contraddizioni clamorose. Conseguenza: chi tende a preoccuparsi si terrorizza ( obiettivo “evitare il panico” fallito) e chi propende per l’atteggiamento “vabbè, ma non esageriamo” ignora in tutto o in parte le indicazioni (obiettivo “responsabilizzare” fallito)
E’ a questo punto che per i decisori compare un terzo dilemma: consigliare o obbligare?
La reattanza psicologica
Domanda del decisore “illuminato”: ma perché i cittadini non dovrebbero seguire le indicazioni? Perché mettere in campo divieti, punizioni, polizia che controlla, limitazioni sempre più drastiche? Non basta il buon senso, se non il senso civico, se stiamo parlando di salute di tutti?
Non basta: dobbiamo fare i conti con un altro meccanismo inconsapevole ma potentissimo quando si tratta di modificazione/limitazione dei comportamenti. La reattanza psicologica3 la reazione più o meno intensa che tutti abbiamo nel momento in cui ci vengono sottratte alcuni di quelli che Brehm definisce “comportamenti liberi” (freedoms) e porta a cercare di mantenerli con ogni mezzo. Uscire quando voglio. Fare jogging. Prendere l’aperitivo con gli amici. Raggiungere la famiglia al sud. Andare in montagna.
Come faccio a rinunciare? E’ proprio importante per me. In fondo che male faccio?
Anche la reattanza è un residuo infantile. L’obiettivo, in un momento come questo, deve essere quello di aumentare il senso adulto di responsabilità dei cittadini. Questo significa prendere atto che molti dei comportamenti “disobbedienti” nascono dall’incertezza: il modo in cui sono state date le informazioni e le indicazioni di comportamento non sta funzionando, anche chi vorrebbe “fare la cosa giusta” non riesce più capire quale è: non devo uscire proprio mai? Qualche volta sì, ma come, quanto, fino a dove? E poi: guanti sì o no? Mascherina sì o no? Quando e perché? Stanza di “decontaminazione” dopo che si è usciti a comperare il pane sì o no?
Le euristiche dell’omissione e dello status quo, alimentate dalla reattanza, facilitano la comparsa di un numero elevato di persone che fanno quello che gli fa più comodo, cavillando come adolescenti sul significato (fuzzy!) di “motivi di necessità”, “attività motorie” ecc. Ed è così che si è arrivati a nuove restrizioni, che hanno ulteriormente limitato, per esempio, la possibilità di fare attività all’aperto.
Cosa fare invece? La riflessione sulle modalità più efficaci di informazione della popolazione in situazioni di emergenza merita approfondimenti così come la ricerca di strategie comunicative responsabilizzanti che vadano oltre il dilemma “fidarsi dei cittadini” (modello Boris Johnson della prima ora) o “sorvegliare e punire”, modello cinese coreano che attualmente si sta affermandosi in Europa e altrove.
L’aspetto che, ormai, dovrà essere mantenuto al centro di ogni riflessione è il concetto di incertezza: sempre più spesso ci troveremo di fronte a situazioni impreviste e a evoluzione imprevedibile. Imparare a comunicare l’incertezza sarà la sfida da affrontare.
Quello che possiamo imparare è che lasciare il cittadino da solo di fronte all’incertezza è pericoloso, e crudele. Una valida rete di medicina di territorio – medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, infermieri domiciliari, operatori sociosanitari – in grado di affiancare le persone, le famiglie, le comunità nell’orientarsi in situazioni di questo tipo è sicuramente la scelta più valida e meno costosa. Parliamo di Servizio Sanitario Nazionale. Parliamo di valorizzazione delle risorse esistenti. Parliamo di asse della cura spostato sul territorio anziché sull’ospedale. Questo potrebbe fare la differenza nella storia di una pandemia.
1 Kosko B, Il fuzzy-pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, Collana: Tascabili Baldini & Castoldi, I nani. Vita matematica; trad. di Agostino Lupoli, 4ª ed., Milano, Baldini & Castoldi, 2000, p. 365, ISBN 88-8089-193-6.
2 Moruzzi S., Vaghezza, confini, cumuli e paradossi, Roma, Laterza 2012
3 Brehm JW. Psychological reactance. London: Academic Press 1981.
Foto di Engin_Akyurt da Pixabay
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