“Il lavoro di ricerca portato avanti finora con pazienti e colleghi è la parte facile della medicina narrativa. Ora ci aspetta il compito più duro: convincere chi determina e gestisce le politiche sanitarie a promuovere la narrazione come pratica clinico-assistenziale, a integrarla nei sistemi sanitari”. Così Rita Charon ha congedato il pubblico di ricercatori, professionisti e operatori della sanità provenienti da tutta Italia che lunedì 14 dicembre ha partecipato a un incontro con la studiosa statunitense promosso dalla Asl Firenze – Laboratorio Medicina Narrativa, in collaborazione con la Società Italiana Medicina Narrativa (SIMeN ) e l’Osservatorio Medicina Narrativa Italia (Omni). Nella sede quattrocentesca del centro culturale Il Fuligno di Firenze, la studiosa – docente di clinica medica alla Columbia University di New York e fondatrice della medicina narrativa – ha tenuto una lectio dal titolo “Honoring the stories of illness” che ha delineato il quadro teorico, cognitivo ed esperienziale entro cui si muove la medicina narrativa. O Narrative Based Medicine, secondo la definizione di Charon, una pratica clinica che accoglie la narrazione in quanto strumento di conoscenza, medium attraverso il quale è possibile il riconoscimento reciproco tra curato e curante, conditio sine qua non per l’instaurarsi della relazione terapeutica.
“Honoring the stories of illness” si apre con la visione di alcune opere di Mark Rothko esposte alla Tate Gallery di Londra. Enormi quadri astratti, quasi monocromatici, straordinariamente profondi, immersivi. Superfici che come diaframmi sensibili si attivano allo sguardo attento dello spettatore, conducendolo in un modo oltre la tela. “Il paziente ha bisogno di lasciarsi trasportare. Lasciarsi trasportare nella storia del paziente è fondamentale per il medico”. La narrazione del malato apre una finestra sul suo mondo, spiega la studiosa, ed è importante non solo per la storia in sé, per i fatti che riferisce, ma anche per come li riferisce, con quali parole, strutture, metafore. Da qui la necessità di un training specifico, l’acquisizione di metodi e strumenti che la medicina narrativa ha individuato attingendo a discipline come la fenomenologia, l’estetica, la letteratura. “Una competenza narrativa è necessaria al medico per lavorare in modo proficuo con le storie”, afferma Charon, che alla Columbia University di New York ha fondato e dirige il programma di Medicina Narrativa.
La formazione garantisce gli strumenti necessari a confrontarsi con le narrazioni, con i vissuti, le loro rappresentazioni. Tuttavia, prosegue la studiosa, ciò che è veramente essenziale nella relazione di cura è l’attenzione: “Prestare ascolto a chi soffre è molto difficile, quasi un miracolo. E’ un miracolo”, dice Charon con parole di Simon Weil. “Ma è proprio questa attenzione che ci fa recepire la storia del paziente. Ogni singola parola conta”.
La disposizione all’ascolto, concentrata, senza schema prefissato o obiettivo che non sia accogliere l’altro, è il primo dei cardini su cui si impernia il paradigma della medicina narrativa, il secondo è la rappresentazione. “Non conosciamo una cosa fino a quando non la rappresentiamo, le diamo forma”, afferma la studiosa. Da qui la necessità della scrittura, che serve al medico per dare un senso, uno dei tanti possibili, al coacervo di dati e informazioni recepite con l’ascolto o con l’esperienza diretta. “Le storie sono “oggetti complessi”, difficili da maneggiare, e la scrittura è uno strumento fondamentale”. Guai a vederla come una perdita di tempo. Scrivere, dare forma, è fare (H. James), è una azione che in ambito medico ripaga. “Quando non mi sono chiare alcune percezioni, scrivo. E condivido quello che scrivo con gli stessi pazienti. Talvolta, chiedo anche a loro di scrivere, di riportare nella cartella clinica il loro punto di vista”. Un momento di confronto e di condivisione che ha cruciale importanza nella costruzione della relazione di cura. E’ da qui, dalla risultante dei due movimenti di attenzione e rappresentazione, che si concretizza quello che Charon indica come il terzo cardine della medicina narrativa, il rapporto di affiliazione. “L’attenzione profonda, sostenuta dalla rappresentazione, rende possibile l’obiettivo terapeutico, il lavoro di cura”. Se c’è affiliazione, il malato si affida, il medico trova gratificazione nel proprio lavoro: “Curante e curato possono riconoscersi e accettarsi reciprocamente come membri di una coppia in cui uno accompagna e assiste l’altro nelle sue sofferenze”.
Il quadro delineato da Charon si arricchisce di dettagli nel corso del confronto con il pubblico, secondo atto dell’incontro fiorentino. Su sollecitazione di Antonio Virzì, presidente della SIMeN, si chiarisce che la medicina narrativa non vuole trasformare i medici in psicologi ma “aumentare la loro consapevolezza e insegnargli a non avere paura delle emozioni”. Definito anche il rapporto con la Evidence Based Medicine: “la narrazione è evidenza”, può e deve essere integrata nella pratica clinica. Rispetto alla necessità di valutare i risultati della medicina narrativa, Charon spiega che i parametri, stabiliti a priori, possono essere personalizzati in base al contesto e che, per questo, è importante che nello staff medico ci siano le competenze necessarie. Ancora: agli operatori che hanno avviato solitarie, pionieristiche iniziative nei loro istituti, ricorda che la medicina narrativa lavora con le relazioni, anche quelle tra colleghi. E la rivoluzione digitale? “Una nuova tecnologia che permette la costruzione di relazioni”.
Il dialogo con il pubblico si dipana tra esperienze passate e presenti, arrivando infine a parlare del futuro. “Negli ultimi anni in Italia la medicina narrativa è cresciuta in maniera esponenziale”, osserva Carly Slater, allieva di Charon alla Columbia e ora di stanza nel nostro paese. “E’ questo il momento giusto per aprire un confronto con i decisori politici, con gli amministratori, i vertici aziendali”. “L’ iniziativa degli operatori è stata ed è importante, ma ci sono limiti organizzativi, gestionali invalicabili: è ora che la politica faccia la sua parte“, le fa eco il sociologo Paolo Trenta, presidente di OMNI. “Ci sono esperienze come quella delle ASL Umbria che mostrano come si può avviare il cambiamento”.
“Sappiamo che lavorare con la medicina narrativa nel proprio ambito professionale significa impegno. Tuttavia”, aggiunge Charon, “serve uno sforzo ulteriore”. Bisogna creare una rete, per condividere, confrontarsi e dar vita a un’azione congiunta di operatori, ricercatori, associazioni di pazienti. Si deve portare la medicina narrativa all’attenzione di chi ha il potere di cambiare il sistema sanitario, coinvolgere i rappresentanti politici, gli amministratori. “E’ la parte difficile della medicina narrativa”, avverte la studiosa, “ma non dobbiamo scoraggiarci: tutte le grandi trasformazioni sono all’origine iniziativa di pochi”.
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